Ci sono notti tetre che conducono ai limiti del reale, porte che si aprono e chiudono sul nulla, misteriosi vagoni di treni e il colore sciupato e al contempo fascinoso di corpi di donne la cui carnalità tinge metallici paesaggi metropolitani. L’opera del premio Nobel per la letteratura Gao Xingjian, celebre autore cinese rifugiato in Francia dal 1988, si situa in un territorio instabile capace di deflagrare ed espandersi in tutte le discipline artistiche di cui il poliedrico scrittore fa uso.
Narratore, saggista, drammaturgo, pittore e cineasta, Xingjian nasce nel 1940 nella Cina sudorientale, studia letteratura francese all’Università di Pechino e traduce in cinese alcuni dei più importanti classici del Novecento. La produzione drammaturgica di Ionesco, prima di qualunque altro autore, diviene per Xingjian uno dei termini di paragone prediletti: non si tratta di una linea guida, né tanto meno della figura di un maestro di cui seguire il percorso, quanto della possibilità, improvvisamente dischiusa, di percepire il reale in una modalità totalmente nuova, capace di affrontare e/o fuggire quella dittatura che affligge la produzione culturale cinese. Dopo essere stato drammaturgo del Teatro dell’Arte Popolare di Pechino (nel 1981), nel 1987 Gao decide di lasciare la Cina e di emigrare a Parigi, città in cui attualmente vive e lavora.
Conosciuto in Italia per i suoi romanzi (La montagna dell’Anima, Il libro di un uomo solo) l’autore è (ingiustamente) meno conosciuto per la sua produzione drammaturgica. È per questo che il piccolo volume Teatro pubblicato il 20 Ottobre dalla casa editrice Edizioni ETS e curato da Simona Polvani (per l’occasione anche traduttrice dei testi) appare come un piccolo scrigno dorato, una preziosissima (e necessaria) traccia della poetica teatrale di un autore imprevedibile che si afferma non solo come una delle voci più alte dell’avanguardia artistica della Cina, ma anche come una delle punte di diamante della produzione letteraria e artistica contemporanea su scala mondiale. Un documento quasi imperdibile, dunque, che unisce in una sorta di trilogia ideale tre testi teatrali, creati tra il 1993 e il 2007 (e scelti fra le diciassette pièces scritte finora dall’artista), sviluppati tutti intorno all’elemento notturno.
Il sonnambulo, Il mendicante di morte, Ballata Notturna – questi i titoli delle tre opere – pur nelle loro evidentissime differenze, sembrano costruirsi sullo stesso morbido sfondo: la notte come limen tra realtà e sogno, come spazio impuro in cui afferrare, solo per un attimo, un frammento del senso della vita, per perderlo irrimediabilmente. Tinte noir avvolgono il meraviglioso Il sonnambulo che, come una porta immediatamente spalancata nella dimensione del sogno, trascina il lettore in angoli ombrosi di metropoli attraversate dal rumore metallico dei treni e abitate da sonnambuli, nottambuli, prostitute, barboni e ambigui criminali. Se Ionesco, Beckett e tanto teatro dell’assurdo sembrano, in un primo momento, i fili attraverso i quali Gao intesse la propria drammaturgia, il proseguire nella lettura dimostra come l’autore, pur partendo da questo universo ideologico, porti la sua scrittura e il suo teatro altrove. Pur immerso nelle tenebre di paesaggi irreali e apparentemente sconfinati, in lande desolate o spazi claustrofobici, l’universo creato da Xingjian è concreto, totalmente tangibile. Ed è proprio la vivacità dell’oggetto e dello spazio reale a spiazzare il lettore mettendo in crisi il suo orizzonte percettivo.
L’autore cinese trova piccole affinità con la produzione letteraria del giapponese Haruki Murakami e con quella capacità, tutta orientale, di far penetrare l’inquietante e il metafisico in elementi di estrema quotidianità. Monologhi e dialoghi si intessono ancora ne Il mendicante di morte, una spietata analisi della gratuità dell’arte nella società contemporanea, e in Ballata Notturna, un libretto per uno spettacolo di danza totalmente al femminile sospeso tra tradizione e contemporaneità. Questa stessa dicotomia, d’altronde, ritorna nei tre testi custoditi nel volume, in cui è evidente la volontà di Xingjiang di conservare una memoria storica, non distruggere il passato ma reinventarlo per proiettarlo verso il futuro (da qui l’attacco a certe attitudini distruttive dell’arte contemporanea).
Ma i tre testi, naturalmente, non sono pietrificati sul piano letterario, piuttosto divengono, nella lettura, cartina di tornasole di una particolarissima concezione del teatro – dalle qualità dell’attore a quelle dello spazio – che trova fondamento nella tradizione cinese e nelle più importanti rivoluzioni novecentesche occidentali (da Stanivslaskij a Brecht), nonché nella stessa biografia dell’autore ovvero nella sua vicenda di emigrazione ora traslata in emigrazione linguistica. A tal proposito il lettore troverà un utile approfondimento nel testo introduttivo di Simona Polvani, una profonda analisi del teatro di Gao e del suo particolarissimo utilizzo della sintassi e delle strutture temporali in relazione al dispositivo drammaturgico e scenico. Completa il volume una postfazione di Antonietta Sanna che, prendendo le fila del saggio introduttivo, lega l’analisi linguistica al percorso biografico e politico dell’autore, dal suo contrasto con la dittatura cinese al rifugio francese.
Un percorso nell’oscurità dell’animo umano, nell’intimità di una lunga notte dalla quale attingere frammenti di senso (o di non-senso) dell’essere in vita, o semplicemente cercare, nella continua decadenza della felicità, nuove vie di fuga e – come si legge ne Il Sonnambulo – «Dappertutto, ovunque, riconquistare la libertà».
Matteo Antonaci
Ciao,
volevo soltanto segnalarti che Xingjian e’ il nome proprio, non il cognome. In Cina funziona al contrario: prima il cognome e poi il nome, quindi non conoscendolo direi che si potrebbe chiamarlo per cognome, o almeno credo sia questa l’intenzione. Insomma per gli amici Xingjian, per chi non lo conosce: Gao. 🙂