De L’avaro, commedia in cinque atti scritta da Molière nel 1668, sappiamo già quasi tutto per via del suo status di classico, per ciò che dunque ha imposto nel tempo la sua valenza culturale e letteraria alle epoche ad esso successive, lo stesso gioco che rileggerà i testi contemporanei e li scoprirà immancabilmente quando sarà tardi e contemporanei non lo saranno più. Solo della tradizione si fida, l’evoluzione culturale. Arpagone è un vecchio tirchio, padrone dei suoi averi e dei suoi figli, che tende a considerare più o meno la stessa cosa, con una sensibile predilezione per i primi in quanto non consumano e non si ribellano. Dal canto loro i figli hanno in sé un contrasto fra la loro giovane età, che li porterebbe a voler vivere una vita più dignitosa e per entrambi sublimata nell’amore, e insieme il rispetto dovuto a questo padre padrone un po’ di tutto. Anche dei loro sentimenti. Sarà questo, la densità di sentimenti troppo forti per essere traditi e alla speculazione consegnati, che farà saltare il tappo e libererà l’ingegno per riprendersi la propria vita al volere paterno fin qui sacrificata.
E poi? E poi c’è il regista, quando questo termine riesce ad indicare una visione in grado di non annientare gli attori, servirsi della loro porosità al fine di salvaguardare una materia e continuamente rinnovarla. La versione che ne dà Arturo Cirillo – nel testo tradotto da quel grande uomo di lettere che fu Cesare Garboli – è dunque in linea con le migliori operazioni che si possano compiere nei confronti di un testo classico, un servizio alla collettività non teatrale – così accolta in un gioco tutt’altro che intellettuale – ma insieme una dichiarazione puntuale e non eccedente di fedeltà a un ambiente che di questa evoluzione culturale è figlio. In scena assieme ad altri otto attori, Cirillo come un vero capocomico si riserva la parte più difficile, quella di Arpagone, che incarna con preziosa nobiltà d’attore, ma proprio in tal modo tiene le fila di un complesso scenico molto ben costruito, sia per la disposizione spaziale che per l’afflato unitario che coinvolge gli attori.
Lo spazio – appunto – si articola attraverso una costruzione prospettica a chiudersi verso il fondo, ampi quadrati comprimono una visione nel buco finale che vieta l’esterno alla casa di Arpagone, geloso di ogni cosa possa lambire le sue ricchezze, conservatore dei respiri di ognuno che punti quell’esterno. Arpagone è dunque un mondo che non si vuole piegare alla trasformazione, cercando di ridurla fino alle conseguenze più estreme, assetato delle sue cose le concupisce morbosamente anche e soprattutto quando già gli appartengono, rendendo i valori dunque totalmente annullati. Nell’opacità dei costumi e della scena si impone maggiormente questo velo di frugalità coatta, non vera, ma i quadrati si fanno fluttuanti e le musiche sinistre e dissonanti dicono che qualcosa accadrà, lo sgretolamento è inesorabile e così – in tal modo – salvo è di Molière quel seme di violenza (come già ne L’avaro del Teatro delle Albe, anch’esso di questi anni).
Lo sguardo di Cirillo passa attraverso gli attori, ottima la sua qualità nel delineare i personaggi, ad ognuno di essi concede note caratteristiche e una connotazione fisica che ne accentrano l’attenzione, riuscendo quindi nel disegno collettivo senza dimenticare le – peraltro ottime – individualità, tra cui spiccano il giovane Cleante (Michelangelo Dalisi) e una frizzante Sabrina Scuccimarra nei panni della “mediatrice” Frosina. Ne nasce uno spettacolo leggero che non perde però in eleganza, senza cedere ad alcuna vaga trivialità si fa lustro della lingua che il commediografo francese si porta in dote e dichiara una volta di più la modernità di questo testo, in un’epoca animata da un bieco peculato e dalla chiusura nel privato delle proprie ricchezze. Lo vedano i nostri nobili imprenditori che fuggono all’estero annientando la crescita e il mercato, lo vedano prima di rimanere soli su un’isola caraibica a contare soldi che non sapranno acquistare più nulla.
Simone Nebbia
In scena fino al 18 marzo 2012
Teatro India [cartellone 2011/2012]
Roma
L’AVARO
tradotto da Cesare Garboli
regia Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo, Monica Piseddu, Luciano Saltarelli, Antonella Romano, Salvatore Caruso, Sabrina Scuccimarra, Vincenzo Nemolato, Rosario Giglio
Una produzione Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile delle Marche
prossime date:
20 e 21 marzo 2012 : Cremona Teatro Ponchielli
dal 23 al 25 marzo 2012 : Siena Teatro dei Rinnovati
27 e 28 marzo 2012 : Carrara Nuova Sala Garibaldi
Trovo scandalosa una cretica del genere per uno spettacolo imbarazzante, direi parrocchiale, i cui personaggi sono ridotti a tristi clichè da Bagaglino, traballanti tra caratterizzazioni sulla scia di una povera commedia dell arte ormai deturpata, e un imitazione sterile di personaggi come la Marchesini, chissà perchè poi,forse per strappare qualche “risatina” in modo facile al pubblico!!?? ( mi riferisco precisamente all interpretazione della Scuccimmarra, ) e di Carlo Cecchi, è il caso di Cirillo, che seppur non perfettamente adeguato al personaggio di Arpagone, ne restituisce alcune note interiori, suonando con estrema maestria e forza. Per non parlare poi d Cleante(michelangelo Dalisi) , uno dei protagonisti , che sembra uscito da un centro di manicure, davvero poco credibile nell eterosessuale innamorato, o di Valerio ( luciano Saltarelli) che sembra volere a tutti i costi recitare,male, una commedia di Scarpetta, o della cara Marianna (anche lei che crede che per recitare l innocenza e l ingenuità giovanile basti un tono di voce più sottile e qualche intonazione sullo stile del Doppiaggese..
Mentre Moliere ci lascia personaggi così sofisticati e incisivi, qui, in questa messa in scena assolutamente poco necessaria, sia per chi la vede sia per chi la interpreta, vediamo attori sciatti, pigri, comodi, ai quali sembra non interessare minimamente nessuna delle dinamiche presenti nel testo. Chiaramente se non interessano a loro perchè dovrebbero interessare al pubblico. Peccato. dal teatro India ci si aspetta di più.
Caro Camillo Ben, sono un attore della compagnia, ma naturalmente non mi firmerò col mio vero nome, così come hai fatto tu, ma adotterò anche io un nick, mi chiamerò Giuseppe Garib. Non difenderò lo spettacolo e non mi scaglierò contro di te, in quanto esiste la libertà di pensiero e di giudizio. Ti racconterò invece, cosa che forse apprezzerai certamente di più dello spettacolo e che riterrai azione più sensata, realistica e ben risolta, la mia ultima defecazione mattutina. Avendo ieri sera, dopo la replica, consumato in compagnia dei miei colleghi, due qualità di pizze (bianca all’ortolana e rossa con prosciutto cotto e mozzarella), ho ritenuto opportuno alle ore 10.35 di oggi (21 marzo 2012) rintanarmi nella toilette della stanza del mio albergo e sedermi sul water. Dopo essermi calato i pantaloni del pigiama, ancora caldi di letto, ho atteso che lo stimolo giungesse, per liberarmi della cena. Con mia grande sorpresa le feci erano di un colore molto chiaro, tinta foglie d’autunno. Inizialmente ho attribuito tale sfumatura ad una irritazione del fegato, causata dallo stress e dalla disordinata dieta a cui talvolta noi attori siamo sottoposti. Ma poi, ad una analisi più attenta, ho attribuito la colorazione delle suddette feci alla quantità/qualità di formaggio presente nel condimento delle pizze e forse all’abbondante componente farinaceo nell’impasto. Ma poi, e qui spero che il tuo interesse per l’argomento si accresca, mi sono ricordato di aver anche assaggiato uno spicchio di pizza al gorgonzola, generosamente offertami da un commensale. Ciò mi ha definitivamente convinto che la strana tinteggiatura delle feci non era una conseguenza di irritazione epatica, ma semplicemente la presenza di tale formaggio. Alle 10.42, con copiosa carta igienica mi sono nettato il deretano e poi tirato su il già citato pantalone. Colto da un primaverile sopore mi sono, poi, rimesso a letto. Sperando di averti interessato più della mia (e nostra) interpretazione ti auguro una buona giornata. Giuseppe Garib.
Uno spettacolo appassionante invece, una scenografia interessantissima e musiche inquietanti che danno allo spettacolo sfumature tragiche e contemporanee. Una mimica facciale degli attori superlativa.
si si..e poi chissà come avranno fatto a imparare a memoria tutto quel testo?!!!!
Complimenti Giuseppe Garib! Una risposta davvero molto matura! è proprio quello che ci si aspetta da una persona che fa il tuo mestiere.
defecazione o no, lo spettacolo era imbarazzante. Offendi i tuoi colleghi con queste rispostine.