Mi perdoni Edward Bond se rivolgo al negativo la sua famosa affermazione di benedizione, per la città che un teatro lo fonda. Ma urge, perché lontano dai clamori di proteste blasonate e che continuano ad esprimere – nonostante il tempo non favorisca – una discreta vitalità di lotta politica, molte, troppe sono le esperienze di teatri che pian piano stanno lasciando il passo a quest’epoca che non li comprende più, anacronistici mausolei in dedica e memoria all’arte del discorso dibattuto e della condivisione, luoghi che delle epoche raccontano la temperie culturale nelle sue ben precise varietà climatiche – e questo, probabilmente, non è più percepito come un valore di rinnovamento ma è l’ennesimo tentativo di rendere conservativa ogni esperienza di creazione. Atlante va oggi a Poggibonsi – nel cuore di una Toscana provinciale e fertilissima terra di produzione artistica, dove molti sono i piccoli spazi in cui immaginare, progettare e mostrare il proprio lavoro – lì dove c’è un teatro che senza imporre obblighi d’affitto ha garantito questa funzione mediatrice fra l’arte e la popolazione, o meglio c’era, ci sarà stato da oggi che è il suo ultimo giorno di sedici lunghi anni. Il Teatro Verdi chiuderà con il suo ultimo spettacolo, Sandokan dei Sacchi di Sabbia, proprio l’avventuriero di Salgari che tanto gli somiglia, con esso una intera generazione di artisti che qui hanno composto suggestioni e spunti creativi se ne va a cercare altrove, come esuli di un paese terremotato, un posto in cui far rinascere quella civiltà perduta.
La situazione è questa: in sedici anni l’Associazione Timbre di un avventuriero tenace come Luca Losi ha promosso una serie di progetti, residenze, laboratori, tutto ciò che fa di un teatro di provincia il cento nevralgico della stessa, ossia quel luogo che genera la cultura di cui si nutre – inconsapevole – l’intera cittadinanza. Tanti nomi sono passati qui, non importa ricordarli, tanti ne passano ovunque. Ma quel che hanno generato è importante, questo sì: 100000 spettatori dal 1995 ad oggi, 441 spettacoli solo di compagnie professioniste italiane o internazionali, di cui 109 sono stati gli spettacoli per bambini; 72 seminari tenuti da maestri riconosciuti, frequentati da oltre 2000 persone; 9 corsi stagionali l’anno e 300 persone che fino a oggi lo frequentavano stabilmente. La forza dei numeri, lampante per tutti, tranne per chi quei numeri li considera solo se suonano in un fondo cassa. Altrimenti sono cifre, come tante. E non valgono – com’è invece – un campo coltivato. Per questo motivo il Comune di Poggibonsi, a causa di tagli alle risorse, ha deciso di non versare più al proprietario privato i 24000 euro l’anno d’affitto. Ecco, vedete? La forza dei numeri. Quando certe cifre contano più di altre.
C’era una petizione sul web, ora non più attiva. E così l’arte migra da un altro posto ancora (resta in città il Politeama, sala da 600 posti occupata da spettacoli di giro con nomi televisivi in tournée promozionale). Migra proprio come quei nomadi che del deserto hanno fiducia, la loro casa è l’altrove, la loro lingua è la distanza fra il silenzio e la parola. Il parallelo è tutt’altro che azzardato. Il nomadismo cui si costringe il teatro, se da un lato è connaturato al suo peregrinare in cerca di ascolto e partecipazione, dall’altro è determinato dall’emarginazione cui è costretto ormai da molti anni. Il Verdi aveva garantito, come mille altri spazi sottratti all’inerzia urbanistica in favore della germinazione, un’oasi in cui potersi fermare a chiedere acqua, e ottenerne ancora di più. Ma non serve un filosofo o uno studioso dei territori a capire che a chiedere acqua è proprio un artista che,nel suo passaggio nomade, di quell’oasi fa giardino: ciechi gli amministratori che di questo non sanno farsi vanto. Proveranno a gettare i loro semi, ora, in quel deserto che così tante volte abbiamo visto morirsi addosso. Di sete e d’ignoranza.
Simone Nebbia