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Signorina Giulia alla Strindberg – Malosti alla Malosti

Una musica lontana ma insinuante, batte un ritmo sintetico da discoteca; suoni sinistri, stridenti, si fanno largo in una scena che sceglie una prospettiva obliqua sulla struttura rialzata in cui far stare uno squarcio d’interni; botole e vie di fuga sembrano aprire mentre invece attirano in luoghi astringenti, antri in cui cadere vittima dell’immortale gioco del potere seduttivo, in cui le classi sociali scontano l’una la diffidenza verso l’altra e insieme la brama di assolversi dominandola. Questa dimensione asfittica invasa di colori forti dal viola al verde acido, ombrata di tinte oscure e pungenti, rapprese in una sensazione di sudore freddo e posticcio, è quella scelta da Valter Malosti – con la complicità scenografica di una grande Margherita Palli – per portare in scena questo Signorina Giulia, testo del drammaturgo svedese August Strindberg risalente al 1888 e vittima di profonda censura, riservando per sé stesso il ruolo dell’immorale servo Jean, diviso fra due donne, due modi di vivere, due classi di valori: Valeria Solarino – la signorina Giulia – e Federica Fracassi – la serva Cristina timorata di dio e sua promessa.

In realtà preponderante è quel che non si vede, ma di cui si intuisce la portata: nell’angolo sinistro dell’occhio restano immobili e possenti, in piedi senza bisogno di averne dentro ad animarli, due stivali che appartengono al conte, lontano e sempre lì da venire; in quella presenza promessa e minacciata – temibile Godot che incombe incalzando su ogni azione svolta o solo immaginata – è il gioco di tensione che Malosti va scegliendo per questo testo, una corda lasciata a vibrare su una stessa insinuante nota, nelle cui onde la crudeltà dei dislivelli sociali s’imprime con assoluta inarrestabile fluidità.

La signorina cerca di sedurre il servo Jean, che finalmente ha l’occasione per vendicare le angherie e il vecchio dolore di una seduzione – la sua – rimandata da tempo e sempre repressa; Cristina cerca di smuovere la coscienza di entrambi, ma nulla può il suo debole monito soltanto fideistico al cospetto della rovina in cui hanno ormai intenzione di scivolare, animati dalla volontà di possesso sadico dell’altro da sé, ciò che non si può essere. La carica detonante è dunque conchiusa nell’atmosfera di attesa e tensione che Malosti disegna con sapienza ormai usuale alle sue regie, decisamente aderente più alla sua maniera che al testo di Strindberg che, per intenderci, non è in tutto un disvalore perché denota una riconoscibilità stilistica, ma rischia continuamente un tradimento delle occasioni offerte, che in un’epoca come questa così brutalmente ignorante e dimentica di tutto può essere un rischio ancora maggiore. Quel che Malosti compie su Strindberg è un’operazione che cerca di estremizzare la materia, ossia quanto si pensa sia assodato come “strindberghiano”, ma così facendo la sottolinea e quindi la reitera non mettendola in opera, non cercandole venature ignote e quindi più interessanti, ma fidandosi di quelle già espresse in mille precedenti messe in scena, lasciandoci una visione di superficie. Le doti maggiori sono invece legate a una certa chiarezza di direzione, non equivocabile, e quindi una facilità di seguire la vicenda senza troppa fatica per ogni tipo di pubblico; di certo notevole per posata compostezza è anche la buona interpretazione (ma ripeto: di Malosti che fa Malosti…) del servo Jean e di Cristina/Fracassi che da personaggio minore spicca per padronanza scenica, mentre del tutto da rivedere la presenza di Valeria Solarino che sbraccia un’interpretazione sovraesposta e per questo troppo debole – forse, chissà, per definizione registica – anche se c’è da dire quanto il suo sia il ruolo più complesso e difficile, abitato da una quantità eccessiva di sentimenti in repentina mutazione.

Dunque uno spettacolo non particolarmente interessante ma pulito, almeno secondo le volontà del suo regista, in cui i due personaggi servitori incarnano i due sentimenti in contrasto che fondano il gioco del potere: da un lato la rivalsa di Jean che vuole affrancarsi ad ogni costo da quei “pregiudizi, superstizioni che ci hanno inculcato fin dalla nascita”, dice pur tremando alla vista degli stivali del conte, dall’altro lato Cristina che reclama un comportamento più rigido dai padroni altrimenti non potrà portar loro il rispetto che vorrebbe. In questo maligno incastro di sentimenti la figura mediana, quella signorina Giulia padrona attratta dalla perdizione e che finirà per ottenerla: l’unica fine di chi ha perduto la sua anima è che il corpo la segua.

Simone Nebbia

SIGNORINA GIULIA
di August Strindberg
regia versione italiana e adattamento Valter Malosti
con Federica Fracassi, Valter Malosti, Valeria Solarino
scenografia Margherita Palli
Prodotto dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino / Teatro di Dioniso

visto al Teatro Eliseo il 14 febbraio e in scena fino al 26 febbraio 2012

Prossime date:

28-29 febbraio 2012
Teatro Municipale di Piacenza

2-7 marzo 2012
Teatro Ambasciatori di Catania

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

9 COMMENTS

  1. malosti a mio parere è largamente sopravvalutato e il suo teatro contiene un narcisismo che detesto…il parlarsi addosso del teatro che ha perso la sua funzione comunicativa in cambio di pippe registiche

  2. voglio sottolineare che una signorina julie in cui la signorinA JULIE NON ESISTE è’ UN BRUTTO SPETTACOLO E SI HA IL DOVERE DI SCIVERLO

  3. è uno spettacolo imbarazzante.. finché la critica non si metterà a dire l’evidenza.. smetterò di leggere anche la critica.. mi dispiace solo che voi siete critici giovani.. e se non provate nemmeno noi a cambiarle certe cose.. anche solo prendendo le distanze..

  4. Gentili Vincenzo e Jesus, inizio seriamente ad avere un po’ di prurito quando leggo commenti come i vostri, che cercano nella critica una attestazione delle proprie idiosincrasie che – ovviamente – nessuno saprebbe mettere in discussione. E neanche voi. Ho scelto con molta fatica anche verso me stesso di fare un mestiere che m’impone – e ne sono felice – di non sciogliere in banali “brutto spettacolo” o “spettacolo imbarazzante” il giudizio su uno spettacolo. Semplicemente perché quelle frasi non sarebbero un giudizio men che meno critico. Ma ancora peggiore – più che la minaccia di non leggere più critici se non dovessero dire cose in cui specchiarsi – è la lettura di superficie del pezzo piuttosto lungo in cui si articola un giudizio non certo positivo a proposito dello spettacolo in questione. Quindi non vedo dove risieda il problema.

    Saluti
    Simone Nebbia

    • Non ho bisogno di nessuno specchio, né di sentirmi gratificato nelle mie idiosincrasie. Tutt’altro. Dico solo che critici giovani, di webzines poi, non dovrebbero limitarsi a non dire bene o edulcorare i giudizi negativi (ci sono i vecchi critici, la tv e i quotidiani per questo) su casi esemplari come quello di Malosti, esemplari della condizione pietosa in cui versa la maggior parte del teatro italiano prodotto con i soldi pubblici (addirittura Torino), circuitato nei teatri stabili, consacrato da premi di dubbio valore (Ubu) ma che purtroppo perpetuano e enfatizzano uno stato delle cose avvilente. Dico che non c’è più spazio per le sfumature, i compromessi professionali. Dico che chi ne ha la possibilità (artisti, critici) dovrebbe in ogni luogo e in ogni modo lottare perché certe cose non accadano più anche solo manifestando la propria indignazione parlando, dibattendo, non andando ai provini, o con una critica più militante. Non c’è più spazio per il permissivismo né per il compromesso. BASTA!

  5. concordo pienamente con le riserve espresse da vincenzo e jesus sullo spettacolo , pretenzioso e indisponente per la recitazione ostentatamente degagè alternata a fragorosi effetti di luce e suono che ,come grossolani tratti di evidenziatore , tentano di
    recuperare quel disperato terrore e quell ‘ angoscia esistenziale che la presenza
    scenica dei due attori principali proprio non riesce a ( o forse non vuole ) veicolare .
    migliore mi è parsa l ‘interpretazione della serva cristrina .

  6. Cari Vincenzo e Marco (per conoscenza, non che abbia nulla a che dire sul tuo commento). La critica che “ammette l’evidenza” per me non è critica, assolvo al mio compito nel momento in cui mi pongo continui dubbi rispetto a ciò che vedo; non si tratta di edulcorare o fare scelte di quartiere, ma di cercare un ragionamento che – oltre al giudizio opportuno al mestiere che svolgo – tenti di comprendere le scelte artistiche. Vedere arte m’insegna che non c’è uno ed un solo modo di vedere la materia e di trattarla, ma infiniti modi che dell’arte decretano ogni volta la natura esplosiva oltre il presente. Quindi non c’è attestazione dell’evidente, non c’è esemplarità in positivo o in negativo, a mio avviso, c’è il punto di vista, da opportunamente corredare di spunti critici attraverso l’argomentazione motivata. Altrimenti – e vi assicuro che lo dico a mie spese, da molti errori del passato – si scende in chiacchiere da bar che non servono a nessuno e trattano l’arte peggio di come fa chi non fa opere che ci piacciono, non credete?
    SN

  7. Volevo suggerire a Simone Nebbia, che le atmosfere non sono scelte dai registi, almeno non in questo caso.Ma è la sensibilità del light designer, che ne fa una sua sintesi tra la regia e la scenografia.Purtroppo troppi meriti a volte si danno ai registi e agli scenografi, sulle immagini che il pubblico ne riceve, dimenticando l’autore delle luci, che attraverso la sua visione, dipinge lo spazio. Anni fa, lo scenografo Guglielminetti mi disse: vedi, la mia scenografia vista così non è nulla, ora sta a te farla diventare qualcosa.

  8. Gentile Dieffin (certo con un nome reale avrei avuto più capacità di discernimento ma insomma bene anche così…anche se immagino si occupi di luce, sbaglio?), grazie del suggerimento che apprezzo e di cui faccio tesoro per scritture successive. È verissimo quanto dice, siamo troppo abituati a dare al regista i meriti (come i demeriti) delle scelte. Forse proprio perché si chiama così e la definizione vorrebbe che fosse un direttore – e responsabile – di tutti gli elementi presenti sulla scena. Grazie e a presto SN

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