Quanto a volte può la desolazione. Una vedetta e due uomini con mano di taglio a guardare lontano. Non attendono nemici, non se ne vedono più di nemici universalmente riconosciuti, il loro sguardo si è fermato lungo un orizzonte immobile, una linea senza curvature né riflessi, una piatta sciatteria dell’evidenza: il nulla rimostrato per tutto riempire. Ma il nulla che riempie il tutto è un paradosso. E tale questa nostra esistenza. La desolazione di questa inaccessibilità del pensiero al cambiamento sembra essere alle spalle di Spiro Scimone, autore, e Francesco Sframeli, regista, per questo lavoro dal titolo Pali, entrambi in scena assieme a Salvatore Arena e Gianluca Cesale.
Un Golgota acido disegna uno scenario apocalittico multicromatico, non più il vecchio oscuramento, ma un cielo in fondo assolato e timido, una calma apparente perché la Pentecoste stavolta sarà senza rumore, senza grossi clamori confonderà i conflitti annullandoli. I quattro attendono e se ne stanno in osservazione, la loro croce non è una condanna, loro direbbero una salvezza. Così l’apocalisse che stanno vivendo non è una minaccia ma è in corso senza che se ne accorgano, l’attesa è la pioggia, purificatrice, da un sole che solo illumina illusione.
Sui pali per non impantanarsi nella fanghiglia che rapprende ai piedi, dicono di aver alzato la testa che sempre tenevano bassa, un giorno, e di non volerla abbassare più. Domande e risposte svelano un cardine dopo l’altro il richiamo nascosto di questo testo, e lo fanno attraverso un’allegoria di sapore antico, una denuncia segreta e pur manifesta, un senso di coscienza che la rivoluzione all’allegoria soltanto possa passare attraverso. C’è un gusto forte di una interpretazione aperta, esplicativa, di grande espressività. Come peraltro tipico del loro stile. C’è un ottimo senso della simmetria, quadrangolare ma che non evidenzia i suoi spigoli, cercando invece una circolarità nel racconto, nell’esposizione. Una scena composta di scarsi elementi modulari, segno che a una frugalità di mezzi molto spesso corrisponde ricchezza espressiva.
Eppure c’è qualcosa che non va. Il loro racconto denuncia una sconfitta dell’intelligenza, l’inutilità delle azioni, la vaghezza cui siamo costretti da una precarietà emozionale. Ma la loro analisi è ferma alla valutazione del pieno, della plusvalenza che affolla la percezione, e non riescono così, a mio avviso, a cogliere ciò che era di fronte agli occhi: il vuoto, desolante, in luogo del pieno. Il loro orizzonte sembra in fondo colmare l’assenza, li consola per un po’, ma l’assenza rimane, loro ne sembrano estranei contribuendo a una salvezza sempre più lontana. Dunque è il loro impianto ideologico dietro l’artistico a non convincere. Perché pone di solito i buoni contro i cattivi, distinzione in cui i buoni, troppo spesso, siamo noi. Ne viene uno spettacolo di certo importante, ma che poteva esserlo di più: la costruzione metaforica è più debole di quanto loro siano capaci, a volte elusiva, tende al “sopra le righe” e rischia “l’oltre le righe”: il rischio di ciò è la sterilità di una struttura più eterea, meno corporale e quotidiana dei loro lavori migliori. Ecco la matrice della loro desolazione: questo testo riflette in pieno una crisi generale, una difficoltà oggettiva di agire, che per riflesso coinvolge chi denuncia, complice dello stesso misfatto. L’apocalisse è una evidenza cui non c’è da aggiungere altra denuncia, perché usuale, senza conflitto, quindi la salvezza non è dovuta, è progetto coscienzioso, riscatto dell’anima, e tutta da conquistare.
Simone Nebbia
in scena dal 2 al 12 febbraio
Tetro Franco Parenti [cartellone]
Milano
PALI
di Spiro Scimone
regia Francesco Sframeli
con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Salvatore Arena, Gianluca Cesale
scene e costumi Lino Fiorito
luci Beatrice Ficalbi
Questo articolo è apparso anche su Lettera 22