Le etichette non ci piacciono. E questo dovrebbe ormai essere chiaro. Sono questi anni in cui le forme si stanno facendo liquide, gli impulsi contemporanei mirano a far saltare le stabilità, creano emergenze e le spine dorsali di certe categorie frustano a terra come serpenti senza vita. Lettura-concerto è la formula scelta per la messinscena del romanzo di Louis-Ferdinand Céline Viaggio al termine della notte ad opera di Elio Germano e Teho Teardo. Il primo è un attore di grande classe, giovane e agguerrito, ad ora ancora lontano dalle logiche del divismo che pure busserebbero alla porta del suo atteggiamento, visto il successo che negli ultimi anni ha riscontrato sul grande schermo. Di tali successi ogni programma di sala e comunicazione si affretta a dar notizia, componendo un curriculum in pillole che si è dimostrato in grado di riempire le platee.
Assistiamo a questa sua escursione nel teatro in un periodo in cui le esogamie tra cinema e arti sceniche sono tutt’altro che rare: gli esempi sono molti, da Scamarcio a Solarino, da Inaudi a Santamaria. Tuttavia, con tutta l’ottima disposizione d’animo, peraltro confermata dallo stesso Germano, a suo agio anche sul palco senza bisogno di rifarsi a chissà quale gloria di celluloide, avevamo assistito, in Thom Pain, a una curiosa dinamica, grazie alla quale a legittimare un testo tutto sommato debole come quello di Will Eno non era stata solo la bravura dell’interprete ma l’apparente bramosia di una intera (giovane) platea nei confronti dell’immagine di Germano ancor prima che della sua prova d’attore.
Stavolta il pubblico non è quello della “sua” Roma, dove ora lo spettacolo è in scena al Palladium, ma della Milano dell’Elfo Puccini. La materia testuale è ben più complessa, al punto da scansarlo (per fortuna sua) da un lato. Un romanzo buio, nichilista, crepuscolare, estremamente «maschio», diceva Bukowski, che nel Bardamu del Viaggio vedeva un ottimo modello di protagonista. Qui non c’è spazio per gli intellettualismi borghesi e un po’ acidi di Eno, per quelle dissertazioni da specchio solitario, o quantomeno di questi stessi elementi si avverte qui, siderale, la distanza cronologica, al punto che certi slanci di coscienza – se letti in questo nuovo millennio – si lasciano crescere addosso una crosta di ulteriore caducità. Bardamu è una sorta di Forrest Gump della Grande Guerra, viaggiatore orizzontale attraverso i raggi più potenti dell’alba di quel «secolo breve» (come lo voleva Hobsbawm nel libro omonimo): guerra, nazionalismi, razzismo, colonialismo e già un’ombra di sogno americano. Il romanzo di Céline, che vedeva la luce nel 1932, sarebbe diventato un modello di prosa libera, spesa e mai perduta tra il racconto più vivido e la più cruda riflessione critica sugli eventi, ma ancor più sul modo in cui narrarli.
Scena semivuota, nessuna video-installazione. Sulla sinistra uno scrittorio con abat-jour, regno dell’attore; al centro la postazione di Teardo; sulla destra lo spazio per il violoncello di Martina Bertoni. Come a dire che il centro, qui, è la musica, o meglio l’invenzione sonora. In mano al compositore friulano la chitarra diventa una bacchetta magica per sonorità acide che si posizionano nel centro esatto tra le potenzialità acustiche e la distorsione elettronica. Loop station e multieffetti sono le sue armi, un archetto da violino e un magnete che prolunga il suono gli “effetti speciali”, tocchi finali di una scrittura agile al punto da bastare a se stessa ma mai esagerata, sempre al servizio delle parole, un’esecuzione perfetta e una grande sintonia con la pur abilissima violoncellista.
Germano legge il romanzo da dentro, si insinua tra le righe di una prosa che non ha briglia da tenere, passa da un microfono all’altro (voce naturale-voce distorta) come fa il suo protagonista in un’intermittenza tra scienza e coscienza del vivere. Della trama e della struttura restano ganci a cui appendersi, il montaggio del testo serve bene l’indiscutibile abilità di questo interprete che – bisogna riconoscerlo – non si risparmia. Sfogliando con violenza le pagine del copione e lasciandole volare intorno come uccelli centrati da un colpo di fucile, il suo corpo si accartoccia, si contrae e quella luce fioca si spegne, lasciandoci alla musica non sempre in consonanza con la storia ma più abbandonato alla forma concerto.
Questo Viaggio lo si compie ad occhi semichiusi, cullati da sussurri forse qua e là troppo insistiti, troppo sporgenti verso l’intimismo di maniera, ma è forte l’intenzione di dare ai frammenti scelti il ritmo incontrollabile delle immagini di un dormiveglia febbrile.
Eppure una debolezza rimane, quella di un uso del corpo, seppur ricercato, ancora costretto dai limiti di una regia assente. Pretendere di far convivere sullo stesso palco voce e musiche alzando un muro a dividere l’interazione dei corpi rischia di minare l’effetto evocativo del racconto stesso, la sua discussione, dunque il circolo critico che dovrebbe chiudersi nelle mani di un pubblico finalmente partecipe. Qui c’è senza dubbio in una ricerca di dolore localizzato, di inabilità – programmaticamente – nichilista, ma manca quella sinergia anche fisica tra voce e musica. E dunque tra palco e platea.
Sergio Lo Gatto
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano
in scena al Teatro Palladium di Roma fino al 26 febbraio
VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE
da Louis-Ferdinand Céline
di e con Elio Germano e Teho Teardo
al violoncello Martina Bertoni
FONDAZIONE TEATRO PIEMONTE EUROPA in collaborazione con MUSICA90I
“Bardamu è una sorta di Forrest Gump della Grande Guerra”, come e’ possibile scrivere una cosa del genere?
Caro Luca,
Mi riferisco semplicemente al fatto che il personaggio di Bardamu percorre eventi (sia storici che sociali) che hanno segnato irrimediabilmente il corso dell’intero secolo dal Dopoguerra in poi. Allo stesso modo in cui Gump percorre (in maniera inverosimile) tutta la storia dell’America degli anni Cinquanta, Sessanta e Ottanta, incrociando come “per caso” alcuni tra gli eventi clou di tutto un cinquantennio.
È vero che sarebbe più giusto dire che Gump è una sorta di Bardamu “American way”. Ma i due personaggi sono talmente lontani nel tempo e nella cultura che il loro parallelo a mio parere diviene assoluto e, dunque, perfettamente reversibile. Sono entrambe figure allegoriche, che si portano dietro una coscienza e una visione del mondo che è dell’autore. In due modi totalmente diversi. Ma mi sembra piuttosto ovvio che si tratti di un paragone di carattere retorico e non teorico.
Ci mancherebbe.
Grazie di aver letto. A presto.
Sergio