Un viaggio di ritorno. Questa la sensazione a rivedere Brescia per Wonderland Festival. Non soltanto per esserci già stati qualche giorno prima, ma soprattutto per l’esperienza straordinaria d’essere partito da una Roma colma di neve, inaspettata, mentre alla stazione di Brescia nemmeno un ricordo di bianco. Alla partenza le Ferrovie che erano della Stato e ora non più (no perché anche in queste sedi le cose ogni tanto bisogna ricordarle, sempre ce n’è bisogno) soccombevano nel dramma d’aver trasferito la Siberia qui da noi senza che – pare – fosse stato avvertito nessuno, l’organizzazione delle cose italiane dava per l’ennesima volta prova della sua rappresentazione lamentosa e inconcludente, faceva insomma il suo vecchio teatro, mentre alla fine del viaggio è una bella sorpresa trovare un festival rinnovato che quest’anno si inserisce nel panorama con autorità e inizia a diventare un luogo riconoscibile anche per gli anni a venire. Dopo l’apertura della scorsa settimana con La Notte della Cultura, è questa la volta di A.R.E.M. della Compagnia Elena Vanni e Robe dell’altro mondo di Carrozzeria Orfeo, spettacoli nati per il Progetto Roaaar fra teatro e fumetto che ha visto le compagnie collaborare con Residenza Idra e la Scuola Internazionale di Comics.
A.R.E.M. ovvero Agenzia Recupero Eventi Mancanti: la stessa Elena Vanni firma il progetto da un’idea con Raimondo Brandi, sua è anche la regia ma la scena la divide con Francesca Farcomeni e Noemi Parroni. Prima di entrare si compila un foglietto con i propri dati e il ricordo della nostra vita che vorremmo rivivere, indimenticabile al punto di desiderarne la ripetizione. Sulla scena le tre attrici sono a disposizione del pubblico: il loro mestiere è ricomporre quella sensazione, quell’emozione assopita. L’intero lavoro dunque, che del fumetto mantiene la creazione di immagini dirompenti per pochi elementi, per forza di cose regge sull’improvvisazione, perché le attrici non conoscono ciò che andranno a re-interpretare; lo spettacolo pertanto si regge esclusivamente sulla loro verve che decisamente non manca e sulla casualità, lasciando la struttura totalmente aperta: proprio questo però, se da un lato permette il brio dell’ignoto, dall’altro inchioda le tre cre-attrici a un gioco troppo esile e poco solido, che lascia scoperti certi equilibri a indirizzarne il risultato, in cui eccessivo è il rischio di confondere un accadimento di realtà improvvisa con la realtà messa in scena, quando è soltanto questa seconda che mi accetta spettatore e mi stimola a comporre una percezione compiuta di relazione. Il gioco può funzionare, funzionerà di certo, quando i cardini dell’impalcatura saranno certi e concreti per chi compie l’azione, cosciente dunque che soltanto in una struttura limpida dell’azione sa esplodere la percezione sensibile, altrimenti si cade nel tranello dello spaesamento che confonde anche chi assiste e limita dunque l’esperienza.
Invece Carrozzeria Orfeo – che riconosco spettacolo dopo spettacolo stia davvero facendo passi notevoli e decisi – compone la sua strip di scene in cui far stare una sequela di sentimenti che vorrebbero dirsi Robe dell’altro mondo ma, ahimè, sono proprio del nostro: gli alieni sbarcano sulla Terra e il percorso che li segue dipinge perfettamente il contrasto profondo che dell’uomo è fondamento, allo stesso modo mosso da egoismo e solidarietà; le scene si fanno portatrici di un sentimento diffuso di paura, costantemente riversata sull’altro da sé, fino all’annientamento che – per quanto grottesco – è terribilmente realistico. La struttura scelta per quattro attori (Gabriele Di Luca, Luisa Supino, Massimiliano Setti, Roberto Capaldo) in questo caso è solida e il rischio, rispetto a Elena Vanni, è di certo più contenuto: si fidano delle qualità che stanno via via maturando, soprattutto nella confezione di situazioni e nella struttura dialogica così poco in uso nel teatro di oggi; gli elementi in campo attingono al fumetto senza tralasciare le complicità espressive che offre al teatro ma senza farne abuso. Lo spettacolo è dunque di ottima fattura, meglio gioveranno alcuni tagli di testo per non renderlo eccessivamente verboso (ma buona è la drammaturgia di Di Luca), forse anche sciogliendolo in altri elementi di composizione, ancora migliori potrebbero essere i risultati se la vena grottesca affondasse di più nella viva materia, ma di fondo resta un lavoro pulito che discute e fa discutere delle tante paure, ma senza di certo avere la propria di parlare chiaro.
Alla fine di tutto si esce di fuori appena in tempo per vedere la prima neve, lenta e polverosa, cadere sull’asfalto silenzioso di questa città, come volesse celebrare i due spettacoli, due modi diversi di intendere il teatro, ma entrambi animati da un desiderio di scardinare la realtà e farla ribaltare: lo stesso treno mi riporta a casa, ma sotto quella neve gentile non si cancella la sensazione di averne ritrovato la meraviglia a contatto dell’arte, così lontana in una città – quella di partenza – di bianco blindata. Ecco dove il viaggio d’andata verso il teatro, lontano dai cori lamentosi, di certo era già di ritorno.
Simone Nebbia