Bianco. Il foglio mio è rimasto così per un paio di giorni. Prima di scriverci queste parole. Bianco e opaco era lo spazio de L’origine del mondo, ritratto di un interno – immensa fatica in quattro episodi di Lucia Calamaro – la prima volta che l’ho vista, quando cioè presentava il suo primo segmento (Donna melanconica al frigorifero) di un percorso già monumentale negli intenti. Proprio da quell’articolo che scrissi allora – forse sbagliando i tempi perché non considerato autonomo dai successivi per l’artista – ho creduto necessario ripartire per affrontare l’attraversamento di questa maratona finalmente completa; così l’ho riletto e curiosa è stata la sensazione di parole che già bastassero – per quanto poco possano bastare parole di altri a dire di un creazione – a intercettare gli elementi e le occasioni di uno spettacolo allora in divenire, ora divenuto. Questa sensazione può dire due cose, fondamentalmente: da un lato una grande attenzione al tema disteso in tutte le sue opportunità, da parte di un’artista che ha nella parola la maggiore forza non esplicativa ma rappresentativa e che persegue con grande stile l’irriducibilità dell’idea e del pensiero, dall’altro lato può far venire anche il dubbio che bastasse meno di un lavoro mastodonte per dire e anche con dovizia di particolari quanto l’espressione imponeva.
Quattro episodi, ognuno un elemento della vita quotidiana di una casa enorme (venticinque metri la profondità dello spazio scenico, come in Magick), vuota, in cui coesistono tre età della stessa donna, o tre donne in successione di una stessa famiglia, poco importa: c’è l’universo donna in scena, questo conta. Frigorifero, lavatrice, fornello, lavabo. La relazione che si instaura fra gli elettrodomestici e la figura umana è determinante, l’attivazione di ognuno dipende da un agente esterno che li anima e li rende quasi umani: elettricità, gas, acqua corrente, in ognuna di queste intromissioni è una falla di quel “domestico” che viene prima di “elettro”, un cedimento scomposto della solitudine al focolare tradito, espulso dal ventre femminile e universalizzato – per una volta – dal punto di osservazione opposto all’usuale maschile.
Lo spazio in profondità è più di un vezzo poco replicabile (che sarà chiaramente modulato per ogni spazio scenico in cui andrà): c’è un dono dell’irripetibilità che dell’arte è sorella, proprio nel periodo storico della riproducibilità eccessiva, in questa scelta di occupare un vuoto non prospettico ma lineare, un grande lungo parallelepipedo con solo due finestre in fondo, pannellato di quel bianco perlaceo in carta da parati (opaco) illuminato dal tocco poetico di Gianni Staropoli, attraverso cui sentire il peso della vertigine d’interni. Questo spazio è abitato da tre attrici: sempre in scena Daria Deflorian e Federica Santoro, in alcuni degli episodi la stessa Calamaro che si ritaglia un ruolo d’interferenza, la nonna logorroica e incontentabile che inchioda figlia e nipote alla loro solitudine autoinferta. Molto brava Calamaro frizzante e vitalissima, estremamente accurata Federica Santoro, una figlia vittima dell’instabilità in cui è cresciuta e forse l’unica che tenta un salto in avanti, è però Daria Deflorian che trova un’interpretazione inarrivabile, di cui – non ho timore a dire – parleremo ai nostri nipoti: la sua facilità di non diventare ma essere, la sua maschera melanconica che conserva una freschezza detonante, ogni suo gesto assume l’innata potenza di una creazione scenica continua.
Quattro ore, e di più. Una solitudine estrema attraversata con leggerezza e autocritica fortissime, con grande coraggio di aprire la propria psiche e offrirla in dono, spaccarla – come lo spettacolo – in quattro parti da analizzare con l’aiuto – ma condito di mille riserve – di una psicanalisi che “non sa dove sbattere la testa”, che sia la propria o quella di questa paziente irriducibile. Per fare tutto questo un testo che sceglie di essere verboso in eccesso, ma che è proprio questo coraggio a rendere esclusivo e indimenticabile: siamo di fronte a uno dei capolavori della drammaturgia testuale italiana, non nuova né borghese né filosofica, nessuna categoria ma qualità estrema di composizione che non fa il verso a esperienze estere ma sceglie di credere nella lingua e nella struttura italiana della frase con tutti i suoi difetti, ma anche tutta la sua ricchezza e complessità. Questo testo (unitamente ai precedenti Tumore e Magick) ha il pregio enorme di riaffermare la preponderanza culturale in seno al teatro, il suo legame con la letteratura e una vocazione fuori dalla smodata spettacolarità e anche lontano da una scelta tutta di stimolazione emotiva che è di molto teatro cosiddetto “contemporaneo” e che ci ha disabituato alla scrittura drammaturgica.
Qualche ridondanza compiaciuta e citazionista, qualche stanchezza di psicologismo, nessuno di questi elementi scalfisce questo passaggio dentro di sé insieme aereo e profondo, con una delicatezza e una viscosità dell’espressione davvero rari, in grado così di riaffermare la preponderanza del pensiero e resistere alla sua brutalizzazione. Afferma Lucia Calamaro che c’è un altro modo per parlare di realtà contemporanea, il più vecchio di tutti ma che appartiene alla storia della cultura italiana: ci fosse un premio “nazionale” a definire i meriti di certe grandi esperienze teatrali, dico ci fosse, forse dovrebbe iniziare a pensare di valutarlo, questo spettacolo.
Simone Nebbia
Visto il 26 febbraio 2012
Teatro india [cartellone 2011/2012]
Roma
L’ORIGINE DEL MONDO, ritratto di un interno
spettacolo in quattro episodi
1. Donna melanconica al frigorifero
2. Figuranti del dolore al lavatoio
3. Certe domeniche in pigiama
4. Il silenzio dell’analista
scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Daria Deflorian, Federica Santoro, Lucia Calamaro
luci Gianni Staropoli
aiuto regia Francesca Blancato