Proprio al nuovo Spazio Idra per tre giorni si è parlato di drammaturgia, più avanti ne porteremo i frutti della testimonianza. Con Stefano Massini come guida – ché in altri modi è difficile chiamare una didattica intenta a creare un percorso tra la foresta di possibilità creative – e un gruppo di giovani drammaturghi, la parola d’ordine è stata “urgenza”. Perché è l’urgenza legata a un’idea che trova spazio tra le necessità del pubblico e del reale, è un carburante dal quale non si può prescindere se l’obiettivo è quello di lasciare allo spettatore una materia viva e vivificante. La rassegna Wonderland è partita con un investimento di forze altissimo che ha portato Teatro Inverso a scommettere su una notte interamente dedicata alla cultura, ottenendo un guadagno in termini di fatturato “umano” altrettanto alto. La nuova sala in vicolo delle Vidazze era infatti piena e tra gli spettatori incuriositi non vi erano solo appassionati della scena contemporanea e giovani teatranti: signore non più giovanissime occupavano le prime file di sedie e con impazienza attendevano lo spettacolo che avrebbe aperto la serata. Lo facevano con quello slancio alla scoperta che caratterizza chi è affamato di segni non solo nuovi ma, appunto, urgenti.
Nonostante occupassi quello che nel teatro barocco era il posto del principe – dal quale meglio si scorge la prospettiva creata dai Torelli di turno – forse per la prima volta mi sono trovato a non applaudire. Il motivo, per quanto ragionare in termini economici appaia come un paradosso, è stato proprio lo spreco di quel capitale umano raccolto nel nuovo spazio bresciano. Autore di questo gesto suicida è stato il Teatro delle Moire con lo spettacolo It’s Always Tea-Time.
Su queste pagine, nello spazio diaristico dedicato alla scorsa edizione del Festival Teatri di Vetro 2011, ne incrociammo la proposta in relazione allo spettacolo Never Never Neverland. Anche in quel caso il lavoro del gruppo milanese si legava a quello del drammaturgo Renato Gabrielli. Cambiano spazi, contenuti e linee narrative, ma il succo è il medesimo: un gioco di rimandi e trasformazioni nel quale ogni forma, per reale e materiale che possa sembrare, può essere reinterpretata e di conseguenza può modificare il proprio valore d’uso. Non siamo però qui per parlare di estetiche, o comunque non solo, e di conseguenza il problema delle Moire non è l’utilizzo di un linguaggio-concetto ormai desueto (parlo naturalmente del dadaismo), ma della volontà di chiudere tutto questo in se stesso, di farlo implodere. Allo spettatore, che si pone di fronte a una performance muta nella quale per più di un’ora gli interpreti declinano in modalità diverse la quotidiana partitura dell’apparecchiare la tavola e del sedersi per mangiare, viene chiesto di rimanere fuori, di guardare da lontano quel che Renato Palazzi ha chiamato “Il tè nel deserto del vivere”, oppure di indossare i panni dell’investigatore cercando tra le immagini proposte i rimandi che si affastellano nel proprio alfabeto culturale.
Tutto è accennato e dunque tutto potremmo trovarvi: – dal banchetto del Cappellaio di Lewis Carroll che si ripete in un eterno ritorno al rapporto che una società consumistica ha con il cibo, fino a quella perdita di identità e di senso con cui sempre Palazzi termina il suo articolo. Ma sono tutte cose di cui eravamo già a conoscenza. Pure le signore che sedevano dietro di me, impazienti, avevano carpito questi segni di superficie, ma contestualmente avevano anche registrato la volontà dell’artista di rimanere su quella superficie senza approfondire. Il pubblico è salvo. Qualsiasi ragionamento messo in campo dal gruppo di interpreti/autori (Gianluca De Col, Alessandra De Santis, Attilio Nicoli Cristiani, Emanuele Sonzini) deve, appunto, essere vagliato dalla ragione, perché in nessuno dei meccanismi utilizzati, anche quelli più onirici, lo spettatore è costretto a guardare il proprio volto sfigurato nello specchio. Proprio nel finale, quando il ripetersi della drammaturgia conduce allo sfinimento anche i più pazienti, è troppo tardi per recuperare con un cenno finale allo stupore che infatti prontamente rientra nei ranghi lasciandoci interdetti e incapaci di trovare quell’urgenza che di ogni arte deve essere la materia.
Andrea Pocosgnich
IT’S ALWAYS TEA-TIME
Concept, regia e drammaturgia Alessandra De Santis, Attilio Nicoli Cristiani
Creazione e interpretazione Gianluca De Col, Alessandra De Santis, Attilio Nicoli Cristiani, Emanuele Sonzini
Dramaturg Renato Gabrielli
Assistenza al progetto Celeste Sergianno
Luci e suono Paolo Casati
Con il contributo: Comune di Milano – Cultura, PROGETTO ÊTRE – Fondazione Cariplo