Uscendo da un bar una ragazza lascia cadere a terra un biglietto bianco. Sul foglio le seguenti parole: «Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere appunto perché lo si è, non si può comunicare se non ciò che non siamo: la menzogna». Sono queste le parole e le immagini che ritornano ripetitivamente in Perdere la Faccia, nuova produzione della compagnia teatrale Menoventi realizzata attraverso una misteriosissima collaborazione con il regista cinematografico Daniele Ciprì.
Un particolarissimo incontro tra cinema e teatro, dunque, ove la “riproducibilità tecnica” della settima arte, lungi dal costituirsi nella forma filmica tout court, diviene sistema di pensiero basilare sul quale costruire l’intera opera. Ed è in questo sistema di pensiero che il teatro s’incunea alimentando quel cortocircuito tra realtà e finzione (o sua rappresentazione) a cui la compagnia è da sempre legata (basti pensare agli spettacoli Semiramis, Invisibilmente, Postilla). Alla base della realizzazione del progetto c’è, infatti, la stessa azione o la stessa immagine raccontata nell’incipit di questo scritto. Quel biglietto bianco lasciato cadere dalla mano di un’ ignota ragazza, raccontano Menoventi, è l’oggetto “reale” dal quale l’intero progetto trae le mosse. A trovare quel foglio di carta sono proprio i membri della compagnia: Consuelo Battiston e Alessandro Miele (protagonisti dell’intera opera) e Gianni Farina (per l’occasione sceneggiatore e montatore). Perdere la faccia nasce da questo evento (ma – questo possiamo ammetterlo – nessuno ci assicura che sia realmente accaduto) per riprodurlo, “raccontarlo” come un rimasuglio di tempo continuamente uguale a se stesso o il frammento di una pellicola cinematografica ripetutamente e meccanicamente ri-proiettato. In questa stessa meccanicità si inseriscono i corpi e i volti degli attori in un processo di appiattimento dalla tridimensionalità teatrale verso la bidimensionalità dell’immagine filmica. Perché è in questa bidimensionalità che si può, a tutti gli effetti, perdere la faccia. Ovvero perdere l’identità: quella attoriale, quella del corpo teatrale, quella della stessa opera.
In un’inquadratura fissa, i corpi di Battiston e Miele appaiono ingessati, robotici nelle loro ripetitive movenze. Tutto è statico: solo la frase scritta dall’ignota ragazza apre orizzonti di senso, mondi immaginifici in cui lo sguardo dello spettatore (ed evidentemente l’occhio invisibile, e la voce meccanica di Ciprì) possono perdersi. Atmosfere oniriche, a tratti fantascientifiche, poi tragicomiche (si veda in particolar modo l’intrusione del personaggio interpretato da Rita Felicetti), caratterizzano quest’opera a tratti kafkiana, in cui tutto è il contrario di tutto e in cui il passare del tempo assume aspetti nodosi, contorti e inaspettati, nonostante la chiarezza e la linearità del contenuto. Un annodarsi meccanicamente sinuoso intorno alle stesse parole, agli stessi gesti per stringere o stritolare definitivamente la dicotomia realtà/finzione.
“L’opera d’arte è sempre una confessione” scriveva Umberto Eco, ma, proprio per questo, sembra affermare Menoventi, essa è anche bugia. Una bugia della quale non si può far altro che avere cura poiché – citando Pablo Picasso – unico strumento utile a “realizzare la verità”. E’ questo il motivo per cui, in tale sede, si è scelto di essere complici piuttosto che critici, di essere criptici, per abbracciare il più possibile la meravigliosa menzogna. Al lettore il compito di rintracciare la verità.
Matteo Antonaci
in scena 11 – 13 gennaio 2011
Angelo Mai
Perdere la faccia
cortometraggio di Menoventi – Daniele Ciprì
regia Daniele Ciprì
con Consuelo Battiston, Alessandro Miele, Rita Felicetti
soggetto e sceneggiatura Consuelo Battiston, Gianni Farina, Alessandro Miele
fotografia Daniele Ciprì
montaggio Daniele Ciprì, Gianni Farina
immagine di Nicola Samorì
coproduzione Menoventi e Santarcangelo 41
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna e Banca di Romagna
e con il patrocinio del Comune di Faenza