A quasi 37 anni dalla sua scomparsa, con sorprendente vitalità parla alle epoche a sé future, Pier Paolo Pasolini. Lo fa in una conversazione in esclusiva per Teatro e Critica con il giornalista e critico Nico Garrone, che invece è scomparso solo nel 2009. Viene da dire: ma quando sanno parlare con così lucida visione della storia italiana, quando nelle proprie opere è già immanente la propria vita, sono davvero così morti i morti? No, non c’è morte che chiuda la bocca a vietare i grandi pensieri, ma per fare in modo di ascoltarli c’è sì bisogno di una operazione Colossal, davvero Colossal Kitsch… S.N.
Dottor Pasolini, dopo trentacinque anni dalla sua morte violenta, una morte che è divenuta ormai, a tutti gli effetti, uno dei misteri d’Italia, che senso ha portare oggi a teatro il suo ultimo capolavoro incompiuto, Petrolio?
Nel 1964 stavo lavorando ad una opera poetica che ho poi chiamato Poesia in forma di rosa, venivo dai successi cinematografici e dalla ormai cocente delusione del “sogno di una cosa”. Il successo borghese del mio cinema coincide con l’impotenza rivoluzionaria dello stesso. I contadini, gli accattoni, i ragazzi di vita, che hanno per mamma Roma e che conducono una vita violenta, non rappresentavano più quella forza rivoluzionaria in grado di contrastare l’imponente genocidio di massa che ha ormai portato alla deriva questo paese.
Ecco, maturava in me una risposta diversa, un progetto, oggi possiamo chiamarla una profezia, di morte, di morte esemplare. Quell’opera poetica si concludeva con un componimento chiamato Una disperata vitalità nel quale io dicevo che i nostri figli fascisti, ossia i figli della borghesizzazione del mondo, avrebbero veleggiato verso una nuova preistoria, una terra sconosciuta e sconfinata, al di là degli oceani della storia, dove il potere ha distrutto l’uomo, e procede senza di lui, trionfando in tutta la sua barbara anarchia.
Ecco che è nato in me il bisogno del mio sacrificio, della mia morte, io che da sempre avevo lottato contro la storia, non volevo partecipare, per semplice sciagura anagrafica, alla fine dell’uomo, a questa nuova preistoria in cui tutti voi ora vivete.
Domani ci sarà la prima di Petrolio. Storia di una Superstar. Un grande successo ma anche, come sempre, un grande vespaio di polemiche. Raccontare gli ultimi 40 anni, peraltro molto complessi, della storia d’Italia, dal caso Mattei alla discesa in campo di Berlusconi, in poco più di un’ora di spettacolo, non è forse semplificare la nostra storia del potere?
Quando sono morto, il caso Mattei era ancora un incidente per la giustizia italiana, solo nel ’96, grazie all’impegno del pubblico ministero Vincenzo Calia, si è potuto accertare, sopra ogni ragionevole dubbio, che l’ingegnere Mattei era caduto vittima di un attentato. Pochi giornalisti, e solo qualche attento lettore delle mie opere, aveva ricavato dal mio ultimo romanzo la suggestione che Mattei fosse stato ucciso su mandato delle Sette Sorelle e attraverso la collaborazione di Eugenio Cefis e questo è quello che è regolarmente accaduto in Italia, dalla strategia della tensione a Piazza Fontana, è tutto presente nel mio libro. Questi sono sempre stati definiti “complotti”, come la mia morte d’altronde, ma la parola “complotto” è stata sempre usata per consolare i cittadini circa la vera natura del potere. Il potere appunto, il potere si realizza mediante complotti solo che lascia credere, nell’illusione piccolo borghese, che possa esercitarsi nella chiarezza degli intenti, e nella pace sociale.
Le rispondo quindi che i quattro grandi monologhi che compongono Petrolio. Storia di una Superstar, quello di Cefis, di Andreotti, di Licio Gelli, e di Totò Rina sono, in verità, volendomi sottoporre ad autocritica, un allungare il brodo, mi permetta questa allegoria popolare: la storia del potere italiano poteva essere tranquillamente racchiusa all’interno di un solo monologo sul potere.
E qual è questa storia?
È la storia del pensiero occidentale, superbo frutto della civiltà della morte.
Ha citato tutti tranne il protagonista dell’ultimo monologo, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Perchè?
Il protagonista del mio testo teatrale, l’ingegner Carlo Alberto Valletti, incontra i rappresentanti del potere, di cui ho parlato prima, e accetta deliberatamente di compiere, per loro conto, atti di sconvolgente ferocia. Sono questi i riti di passaggio che porteranno Carlo a vestire i panni di Silvio Berlusconi.
Quindi, Silvio Berlusconi non appartiene alla civiltà della morte?
Esattamente. Silvio Berlusconi non è mai esistito nella storia d’Italia, lui non c’è, non è un uomo ma semplicemente il potere che si è tolto la sua ultima maschera umana per esercitarsi come violenza brutale. Non parlerei più di “civiltà di morte”, nel suo caso parlerei di un impero, impolitico, transnazionale, dove l’uomo è soltanto un feticcio svuotato di vita. Questo è l’immenso lager che è oggi il mondo. Questa è la nuova preistoria.
Pasolini poeta, autore, saggista, sceneggiatore e anche regista di fama internazionale. Perché ha deciso di affidare la regia del suo testo teatrale a due giovani promesse?
Diciamo che da morto mi restava difficile dirigere gli attori (ride), e poi io, anche volendo, non avrei potuto dato che il protagonista dello spettacolo sono io, è la mia vita, la storia di una superstar. Quindi non avrei avuto il distacco necessario per coordinare tra loro i diversi elementi della mia vita. Giustamente, infatti, quando si parla di Petrolio, il romanzo intendo, si dice che è un magma incandescente. È vero, anche la mia vita lo è stato. Serviva qualcuno dotato di un proprio mondo poetico, linguistico e stilistico in grado di addentrarsi nel labirinto delle mie contraddizioni e trovarne una via di fuga.
Superstar! In che senso lei, dott. Pasolini, è una Superstar?
Mito e realtà. Ho sempre avuto una visione ieratica delle cose: tutta la realtà mi è sempre apparsa come un evento mitico. Mito come Mythos, racconto intendo, la realtà è il racconto che noi facciamo di essa, non può esistere senza quest’ultimo. Ora io, nella prima parte del mio cammino da artista, ho frainteso il senso di questo racconto. Voglio dire, sentivo su di me il peso della storia e della tradizione non avvertendola ancora come l’ultima delle più mostruose illusioni borghesi. Credevo nella rivoluzione marxista. Solo che “racconto” fa, di per se stesso, riferimento a qualcosa che è storico, è storia ovvero la vittoria criminosa del potere borghese.
Ad un certo punto della mia vita mi sono reso conto che non potevo continuare ad avere uno sguardo consolatorio sul mondo, non riuscivo più a credere nella rivoluzione, la parola speranza divenne, allora, sinonimo di consolazione. Dovevo compiere un ritorno verso casa, dovevo tornare dal mito alla realtà, dal racconto alla vita. La mia vita è la testimonianza di tale ritorno. L’unica rivoluzione possibile è individuale! Ahimè ho ucciso Karl Marx, qualcuno doveva pur farlo. Mi sono fatto, io stesso, idolo della mia rivoluzione, mito della mia realtà. Sono diventato una star.
Ma possiamo dire, tra gli intellettuali e nel mondo dello spettacolo, una Superstar.
Molto bene. Allora, Leonardo Ferrari Carissimi, insieme a Fabio Morgan, regista dello spettacolo, grava su di voi un’enorme responsabilità: essere i soli testamentari dell’eredità di Pasolini. Come ci si sente?
Le opere di Pier Paolo non c’avevano mai convinto fino in fondo. Nostro malgrado eravamo legati a quell’infinita esegesi letteraria e politica, che è ormai diventata una pubblicità nelle università italiane, che faceva dell’intellettuale Pasolini un monumento della cultura, un grande classico mondadori da mettere in fila sulla libreria. Leggendo attentamente e più volte Petrolio e credendo all’interpretazione di Giuseppe Zigaina, autore esiliato dall’esegesi accademica per aver sostenuto, con convinzione, che per Pasolini l’unica risposta possibile alla vita fosse la morte come futura rinascita, siamo entrati in rapporto al suo linguaggio gergale, abbiamo compreso l’enorme scherzo che ha giocato al mondo della cultura. E questo è bastato per stabilire un contatto con lui.
Ma non hai risposto alla domanda: come ci si sente?
Semplicemente onorati.
Tornando a prima: hai parlato di uno scherzo che Pasolini avrebbe giocato nei confronti di tutta la cultura italiana. Di che cosa si tratta?
Non so se qui possiamo svelare il finale dello spettacolo…tu che dici Fabio?
N.d.r. Fabio Morgan non risponde.
Ok. In poche parole l’ha detto Pier Paolo: ha fatto credere al mondo di essere un poeta civile, un regista, un saggista, un giornalista, un autore, mentre, clandestinamente, lavorava al suo progetto e mistero.
Qual è questo mistero?
La morte mitica come futura rinascita.
D’accordo. Stai quindi affermando che Pasolini è un mito perché è morto ammazzato?
Esatto. Come James Dean ma con il peso di un pensiero che cerca la sua redenzione nella fine. Se la nascita del pensiero nel mondo è nascita del potere, Pasolini per opporsi al potere doveva distruggere il pensiero e testimoniare quest’annientamento con la propria morte.
Ora capisco la scelta di The End dei Doors alla fine dello spettacolo. James Dean, i Doors, Silvio Berlusconi che fa gli accordi con Toto Rina che sembra Don Vito Corleone, non vi sembra di banalizzare un po’ il tutto?
Questa domanda dovrebbe farla a Pier Paolo.
N.d.r. Pasolini ride.
Il problema di voi giornalisti è che siete troppo legati ai fatti, alla storia appunto, al kronos. L’arte non deve raccontare dei fatti ma ha l’obbligo di smascherare la storia, di collegare tra loro eventi anche lontani e disordinati. La differenza tra fatto ed evento è proprio ciò che distingue il giornalismo storicista dall’l’arte: ciò che noi tiriamo in ballo è qualcosa che avviene, si esplica, si espone nella sua paradossalità. Inoltre noi facciamo riferimento a tutte quelle possibilità escluse dalla storia. Il teatro serve proprio a questo: a smascherare ciò che il mondo vuole che si dica di se stesso. Tutto il resto è arte di regime, storicistica, un’arte che si inginocchia alla parola del potere.
Per esempio?
Da Shakespeare a Sarah Kane, da Euripide ai Raffaello Sanzio, ciò che parla è la polis, la coscienza dello spettatore. Non c’è vita, non c’è lo scherzo da giocare a dio, cioè al potere.
Ecco noi parliamo del kairos, del tempo necessario e non borghese, di ciò che il mondo non vuole si dica di sé.
Il teatro deve essere una macchina pantomimica che svela come alla base di ogni società organizzata vi sia un artificio e dove l’uomo, liberato dalla storia, diviene creatore infinito di finzioni. Prendere i diversi momenti della storia umana, i suoi protagonisti, i suoi libri, la sua cultura e farne dei feticci svuotati del loro senso contestuale è il punto di partenza ed il punto d’arrivo del nostro cammino estetico. Questa è la colossale epopea parodistica della storia del mondo, questo è il colossal kitsch teatro.
Per cui quando lei mi chiede se banalizziamo la storia io le rispondo che voi banalizzate la vita.
Non posso esimermi dal farle questa domanda: dott. Pasolini, il 2 novembre del 1975 chi fu ad ucciderla?
N.d.r. Pasolini ride e non risponde.
Leonardo Ferrari Carissimi e Fabio Morgan
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Ho assistito ieri alla prima di Superstar.
Credo seriamente che ci troviamo davanti, per usare una frase dello spettacolo, ad “un fenomeno espressivo completamente nuovo”.
Bellissimo testo, con un bravissimo attore protagonista.
Credo che tutti quelli che si riempiono la bocca di Pasolini debbano vedere questo spettacolo.