Andarsene una sera a teatro e scoprire che si può usare il palcoscenico come finestra sul mondo. Sembra una frase banale, un luogo comune riferito ad altri tempi. Ma quando si ha a che fare con uno spettacolo come Il ritorno, scritto da Sergio Pierattini e diretto da Veronica Cruciani, la plausibilità di questa scoperta ti prende in faccia come improvvisa folata di vento. Gelido, incontrastabile, violento. È quel vento, ma anche questo spettacolo. Perché questa volta, se è del risultato visto in scena che vogliamo parlare, separare testo e regia è quasi impossibile, tanta è l’armonia con cui i due elementi si tendono la mano. E così dovrebbe essere sempre con la drammaturgia. Una scrittura al servizio della scena, una regia al servizio del testo. E, in mezzo a questo vivido incantesimo, un gruppo d’attori che danzano come viandanti costretti in un cerchio delle fate. Se questo schema è auspicabile sempre, lo è ancor di più quando si tenta di riportare la drammaturgia al suo compito primario, quello di raccontare la realtà.
Veronica Cruciani è ormai da tempo sinonimo di una regia impegnata, il cui lavoro parte dalle emozioni e alle emozioni ritorna; se ne esce a largo sulla sua barca a reti spiegate riportando a riva un ricco carico di concetti e definizioni, di ragionamenti e consapevolezze che hanno attraversato i flutti contrastanti come persi in una indecifrabile deriva. Accatastati nello stesso spazio, quegli elementi sembrano ora riconoscersi a vicenda come parti organiche dello stesso corpo di rappresentazione e sorgono a una nuova vita immediata, necessaria, centrale. In forma di performance. Nel 2006 il Teatro Donizetti di Bergamo commissionava alla regista una ricerca e dei laboratori sul mondo del lavoro nella provincia lombarda. Un anno di interviste tra Bergamo e dintorni (soprattutto nella Malpensata, quartiere un tempo operaio ora residenziale) ha rivelato le fattezze di una provincia sconosciuta, silente, nebbiosa, completamente altra da quella realtà milanese che la regista aveva conosciuto come proprio domicilio temporaneo. La penna di Sergio Pierattini aveva poi messo insieme una storia (finalista all’Ubu come miglior novità italiana e Premio Anct 2008) in bilico perfetto tra tragedia e maschera grottesca.
In sessanta minuti abbondanti prende vita una sorta di Twin Peaks della provincia italiana, la fotografia di un “gruppo di famiglia in un interno” in cui gli affetti vengono vissuti con un altro trasporto, un ritmo diverso da quel patinato fulgore a cui certo cinema borghese e certo austero teatro ci avevano abituati. Dopo vent’anni di carcere per l’omicidio del marito, una figlia torna a casa dai genitori e dal fratello. Durante quegli anni le quattro vite si sono divaricate. Il nucleo che univa la famiglia è esploso in tante piccole e tristi schegge: il litigio eterno tra madre e figlio, un padre ex operaio comunista, poi dirigente di un’impresa immobiliare che campa di caporalato, ora finito nella disgrazia psicologica di chi ha perso il contatto con il proprio passato e i propri valori e si aggira come un fantasma tra le pieghe di un misterioso autismo. La forza dirompente del testo non è solo nel tratteggio dei quattro personaggi, ma anche e soprattutto nel loro essere pedine di una scacchiera ideologica che paga il conto di un paese distrutto dall’immoralità, da quella “banalità del male” (avrebbe detto Hannah Arendt) che ha fatto lo sgambetto agli ideali. E non c’è niente di più tristemente politico di questo.
La regia sceglie la via più estrema ma anche la più rigorosa: scolpire ogni psicologia con il cesello e incastonarla in un fondo del tutto asettico (due pareti ad angolo, una pedana, tre sedie e una panchina a vista per i “fuori scena”), alzando mura di freddezza a dividere i personaggi, che tra loro non comunicano se non per gesti, scatti e cambi di posizione e si guardano solo con la coda dell’occhio. La nettezza visiva è enfatizzata da penombre e musiche per i cambi scena e da millimetrici puntamenti innaturali per le scene più intime, senza che l’uso delle luci teatrali riesca a intaccare la semplicità estetica.
Un gioco preciso che non sarebbe tuttavia possibile senza attori di questo calibro. Alex Cendron, Milvia Marigliano, Renato Sarti e Arianna Scommegna (che sostituisce la Cruciani del primo allestimento) hanno la forza e la coordinazione di un unico sistema nervoso. La capacità di Cendron di trattenere fino alle lacrime un’emozione, la tensione antica e minacciosa di Marigliano, la desolante chiaroveggenza emotiva di Sarti e gli strazianti tendini allo spasimo di Scommegna sono solo alcune delle punte di qualità di una recitazione davvero rara che, quando combina i quattro caratteri, lascia persino margine a qualche schiocco di risata. Del quale un secondo dopo ci sentiamo quasi di doverci vergognare, tanto urgente e vera è questa piccola tragedia. Ma, come il suo esatto opposto, comicità, la parola tragedia ha senso solo in questo sublime contrasto, che a chiudere a chiave il cerchio chiama lo spettatore. Finalmente.
Sergio Lo Gatto
in scena fino al 18 dicembre 2011
Piccolo Teatro Eliseo Patroni Griffi [stagione 2011/2012]
Roma
Orari: martedì, giovedì, venerdì ore 20.45
mercoledì, domenica ore 17.00 | sabato ore 16.30 e 20.45
info biglietti su: www.teatroeliseo.it
IL RITORNO
Testo Sergio Pierattini
Progetto e regia Veronica Cruciani
Con Milvia Marigliano, Renato Sarti, Arianna Scommegna e Alex Cendron
Scene e costumi Barbara Bessi
Disegno Luci Gianni Staropoli
Musiche Paolo Coletta
Assistenti alla regia Sara Vilardo, Marta Erica Arosio e Desirèe Piromalli
Organizzazione Pigrecodelta
Un piccolo gioiello di equilibrio e rigore interpretativo. Bellissimo. Dispiace solo la sala piena forse poco oltre la metà. Si dovrebeb fare molto di più per promuovere questo tipo di teatro, questi autori e, soprattutto, questi interpreti. Penso soprattutto alle scuole: la materia, il taglio, la durata, tutto si presta alla presentazione per i ragazzi dei licei. Perchè non pensarci?
Ciao Paolo, concordo con te (sul prossimo numero Gennaio/Febbraio dei Quaderni del Teatro di Roma uscirà a mia firma un approfondimento sullo spettacolo). Ma forse sei capitato la serata sbagliata, quando l’ho visto io mi incuriosiva essere in una platea molto giovane, quindi per l’esatto contrario. Indubbiamente hai ragione però sul fatto che, in ogni caso, andrebbero visti di più spettacoli così ben fatti. Ciao Simone Nebbia