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Italianesi di Saverio La Ruina: storie vere degli “immigranti”

Saverio La Ruina - Italianesi
Saverio La Ruina – Italianesi

“Ma mamma io, per dirti il vero, l’italiano non so cosa sia, e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia”. Di queste parole Francesco De Gregori vestiva L’abbigliamento di un fuochista, di queste parole suona uno strano sentimento di patria a tradimento, ignota e mai conquistata, patria di sangue diluita nei viaggi e nelle occasioni, ascoltando Saverio La Ruina di Scena Verticale che porta in scena il suo nuovo monologo, da sé scritto e apprezzatissimo all’ultimo Premio Riccione 2011, dal titolo Italianesi.

Una tragedia dimenticata, in fondo a tutto questo, quella di soldati e civili italiani rimasti prigionieri in campi di concentramento in Albania, vittime della dittatura instaurata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale; quando furono rimpatriati, molti anni dopo, le donne e i bambini figli di italiani furono internati nei campi e lì dimenticati per quaranta lunghi anni. Il protagonista di questa storia è lì che nasce e vive, sottratto alla sua patria e col sogno della sua altra patria lontana, dov’è tornato suo padre che desidera conoscere. Non c’è bisogno di scriverlo sulla scheda (ma c’è), quanto sia ispirato a storie vere. Quel che colpisce però è l’uso del plurale, là dove solito è l’uso al singolare: storie vere, la pluralità compone un disegno molto più preciso perché fa pensare ai nomi collettivi come popolo, gente, tutti quegli appellativi che ridotti nel singolare non ce la fanno comunque, a non contenere una moltitudine. Questa è la forza che La Ruina è in grado di innescare: nelle sue parole vive una voce che ne amplifica mille altre, sopite dal tempo e dalla dimenticanza.

Un lieve difetto fisico, quasi impercettibile zoppia alla gamba destra, e l’amore per lo sport (ancora, collettivo); poi i capelli sistemati alla meglio ma liberi da una pettinatura astringente, il maglioncino a V rosso sulla camicia bianca, la cravatta stretta stretta, i suoi gesti e le espressioni del volto dicono ancora una volta, dopo Dissonorata, dopo La Borto, che Saverio La Ruina è uno degli attori più bravi che l’Italia possa vantare (e mai se ne vanta…), una sorta di macchina attoriale che dona alla materia ogni cosa di lui, che nobilita, rende viva la poesia della scena: vederlo in certi momenti stimola quella meraviglia, come seguendo la famosa farfalla fuggita di Marcel Marceau. Gli elementi sulla scena sono davvero pochi, ma l’uso è sapiente: l’accentramento dello sguardo su quella sedia che si volge ora da un lato ora dall’altro, il rettangolo di luce che disegna una geometria precisa nel nero attorno (le luci sono di Dario De Luca), dietro un fondale di nebbia appena percepibile la musica trapunta dal vivo di Roberto Cherillo, le ombre sulle pareti laterali dell’uomo e della sedia che si allontanano e si avvicinano, entrambe ingigantite, quel tono sommesso che è suo segno distintivo e sempre di estremo calore intimo.

Le intenzioni di La Ruina si legano a un racconto di dislocazione, di sradicamento continuo e impenitente; il protagonista è straniero ovunque, vittima di un eterno ritorno a un’origine che non lo riconosce (“l’italiano” in Albania, “l’albanese” in Italia), una sorta di emigrante di vocazione, figlio indesiderato anche fosse in adozione, un “immigrante”, viene voglia di definirlo, mai davvero nel luogo dove si trova. La Ruina ha una qualità innata di costruire drammaturgie dove immagina mondi concreti e visibili, ma non per questo poveri di quella poesia popolare, che in questo caso è un’affermazione di italianità dal più in basso possibile. Nella resa finale qualcosa va forse ancora limato, l’ultima parte è un po’ dispersiva e rischia uno sfilacciamento proprio nel momento in cui si richiederebbe massima tensione alla limpidezza, alla concretezza, ma quando la sedia retrocede verso il fondo e retrocede anche lo spazio di luce, ci si accorge come riesca – nonostante sofferta, minata, deflorata – a tornare alla fine la libertà: una luce presa a fatica, l’Italia patria per molti ancora urgentissima terra di conquista, la conquista di sé e della propria presenza – tutta umana – nel mondo che troveranno.

Simone Nebbia

in scena  dal 28 novembre al 3 dicembre 2011
Teatro India [programma 2011/2012] Roma


ITALIANESI
di e con Saverio La Ruina
musiche originali eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco
produzione Scena Verticale

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

3 COMMENTS

  1. Ciao Lello, ma intendi la durata di una replica? Con buona approssimazione dovremmo essere sull’ora e venti, ora e mezza. Se intendi quanto resta in scena è finito sabato purtroppo. Bisognerà cercarne repliche in giro. Ciao! Simone

  2. Bellissima recensione. centrata e appassionata. la scenografia minima esalta la bravura dell’attore e conferma ancora una volta quanto il teatro quando è vero e pieno ‘basti a se stesso’.

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