In una città sconosciuta ogni angolo è un’apparizione, ogni percorso ha una tappa di avvicinamento a chissà quale atto di coscienza, quale spazio risolutivo dove il viaggio assuma senso concreto. Così scendendo da un treno alla Stazione Centrale di Milano, capita di sorridere quando per raggiungere un albergo più decentrato la mappa consiglia di scendere alla fermata della metro M2 dal nome estraneo Lanza, per poi dedicarsi alla tramvia; si sorride perché dietro quel nome impersonale, ignoto, dopo un sentiero sotterraneo di trasporto, la prima immagine di Milano è quella costruzione evasiva che si staglia poco fuori da una delle uscite, verso il viale cosparso di foglie che il vento dagli alberi ha ceduto: dietro quella sagoma un po’ sconnessa, una delle sale del complesso del Piccolo Teatro di Milano, la sala Strehler (una delle tre con la sala Studio e la Paolo Grassi), di fronte agli occhi a rendere lampante il motivo di un viaggio in questa metropoli che la pioggia sta sconfortando.
Bell’accoglienza, per cominciare. Ma il teatro di questa sera è più lontano, ci arriva un tram che gira tutto attorno al Parco Sempione, quell’Out Off Stabile d’Innovazione amato da Franco Quadri e che dal 1976 è uno dei luoghi simbolo del teatro contemporaneo e indipendente milanese (out off, del resto, è “più fuori del fuori”). Ospite di questa sala (trasferita in Via Mac Mahon dal 2004) in questi giorni è stata la XIII edizione del Danae Festival, progetto nato nel 1999 dal desiderio del Teatro delle Moire (Attilio Nicoli Cristiani e Alessandra De Santis) di trasportare letteralmente in giro per la città certe esperienze artistiche non convenzionali e con conseguenti difficoltà di porsi in visione, un po’ al modo che usa Margine Operativo a Roma per il prossimo, imminente Attraversamenti Multipli. La compagnia milanese promuove da sempre questa “vocazione nomade” che tanto ha contaminato gli spazi urbani di una città in profonda urgenza di vivacità, come ha sottolineato Claudia Cannella in occasione della consegna del Premio Hystrio – Provincia di Milano, che ha consacrato questo lavoro sotterraneo e importantissimo di affermazione sociale dell’arte nei territori vittima della spersonalizzazione.
La pioggia attorno, il tempo instabile, non ha fermato quel pubblico che sabato sera ha raggiunto questo storico teatro per assistere alla performance di Steven Cohen, artista sudafricano già presente lo scorso anno, che in questa edizione ha promosso la sua ultima creazione in prima nazionale: The Cradle of Humankind. Obiettivo dell’artista è un viaggio a ritroso che ripercorra la storia dell’umanità rintracciando la causa prima dell’evoluzione nel continente africano, culla della civiltà e sua personale; molto è dunque legato all’origine, agli anni in cui dell’uomo si apprendono gli elementi primari. Per fare ciò Cohen porta in scena con sé la sua tata novantenne – Nomsa Dhlamini –, nera in tutù bianco, che ha accudito e mescolato frammentazioni culturali con un bambino bianco, bianchissimo, molti anni prima. In questo spazio di condivisione pre-artistica, pre-culturale, soltanto umana, si schiude uno spettacolo delicato che ci raccoglie visivamente attorno a quell’evoluzione, della quale espone i risvolti di maggiore purezza. Gli elementi posti in campo si sviluppano nella litania dei canti africani, nelle immagini della giungla, nel rapporto fra le due nudità e dunque fra le due concrete esistenze fisiche in relazione all’intero mondo (la sfera, alle loro spalle); ma nonostante il buon proposito l’indagine pare stanca, vittima di alcuni luoghi comuni che spingono alla percezione didascalica (emblematica è l’esposizione della donna nera rivolta al pubblico, con dietro immagini di uno stupro e in audio l’inno di Mameli) che appare già abbastanza usuale da non avere più quella funzione destabilizzante che si propone. Ma in tutto ciò il merito grande per Danae resta intatto: Cohen sarebbe invisibile in Italia senza quest’opportunità; del suo lavoro di contaminazione con lo spazio, delle sue sculture sceniche e della sua intima necessità di rintracciare l’umanità attraverso sé stesso fatto uomo resterebbe nulla, nulla sotto un riparo dalla pioggia incessante, nulla oltre i viali e le foglie disperse, nulla dove si fermano gli occhi appena fuori dal metrò. Nulla dell’arte. Nulla di noi.
Simone Nebbia
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