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Dove si ferma lo sguardo – L’inquietante velo nero di Romeo Castellucci

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Nella meravigliosa novella di Nathaniel Hawthorne, Il velo nero del pastore, un volto coperto da un velo di crespo nero sconvolge l’intera comunità protestante di Milford, piccolo villaggio del New England. A indossare, senza alcuna spiegazione, il temuto velo di crespo è un pastore, il reverendo Hooper, una dignitosa persona sulla trentina, rispettata e onorata dall’intera comunità. Il gesto e l’ombra scura del velo che cela il volto e lo sguardo del giovane sacerdote portano nella comunità dei fedeli un senso di inspiegato terrore, la percezione di qualcosa di mostruoso e terribile, il presagio nefasto di un accadimento celato dalla scura nube. «Questo velo è un emblema, un simbolo, e devo portarlo sempre, alla luce e al buio, nella solitudine e davanti allo sguardo della moltitudine, di fronte agli estranei e agli amici più cari. Nessuno sguardo di mortale lo vedrà mai sollevarsi. Quest’ombra cupa deve separarmi dal mondo». Queste le uniche parole con le quali il pastore Hooper spiega il proprio gesto rispondendo alle continue richieste dei saggi del villaggio e della stessa fidanzata. La sua figura acefala, per quanto rispettata, non può che portare tristezza e terrore, far nascere racconti e dicerie. Nella nube nera, nel velo di crespo, il mostruoso, il terribile si mostra agli occhi della comunità come a quelli del pastore, sempre schivo a vedersi riflesso in specchi e pozze d’acqua ma comunque deciso sulla sua posizione. Al momento della morte il suo corpo verrà inumato dai concittadini con il velo nero fermo a coprirgli il volto, ad attendere la sua corruzione, a celare e oscurare ancora gli enigmi che circondano quest’atto estremo. Rimane l’incomprensione, l’indicibilità del gesto: «Il volto del buon reverendo Hooper non è che polvere, ma ancora fa paura pensare che si è dissolto sotto quel velo nero».

Di questa indicibilità vive l’omonimo spettacolo di Romeo Castellucci/Socìetas Raffaello Sanzio, presentato durante la ventiseiesima edizione del Festival Romaeuropa. Cercare un rapporto illustrativo con il testo di Hawthorne è, qui, operazione vana. Castellucci non pone lo spettatore dinanzi ad una scrittura scenica che sappia riassorbire il testo letterario in un tappeto di immagini/segno, né tantomeno indirizza il proprio lavoro verso indagini iconografiche permeate dagli elementi simbolici che vivono nella novella. Singolare è, in tal senso, lo stesso processo creativo che sta alla base dello spettacolo. Inizialmente pensato come parte del dittico inaugurato con Sul concetto di volto nel figlio di Dio (che ha recentemente scatenato l’ira di alcuni fondamentalisti cattolici a Parigi – articolo), Il velo nero del pastore è stato formulato in una prima versione che ha debuttato lo scorso marzo in Francia. Soltanto in seguito a tale debutto il celebre regista ha deciso di reimpostarlo, modificandone il nucleo centrale. Così quella linea vagamente narrativa che aveva caratterizzato gli ultimi lavori dell’artista a partire dalla rilettura dell’Inferno dantesco, quel naturalismo assolutamente cinematografico e straniante che viveva nei controversi Purgatorio e Sul concetto di volto nel figlio di Dio, è qui spazzato via, quasi occultato in un ritorno vertiginoso all’irrappresentabilità (sulla stessa linea indagata dalla monumentale Tragedia Endogonidia). Se gli spettacoli prima citati sembravano tendere ad una (seppur enigmatica) ri-velazione, perfettamente riassunta dalla rappresentazione istallativa del Paradiso dantesco, se la visione era indirizzata ad un “meraviglioso” capace di fungere, nonostante la rigorosa inafferrabilità, da meccanismo “tragico” di liberazione, da percorso catartico verso una conoscenza “ultraterrena”, Il velo nero del pastore appare come un processo di sola velazione. Come la nube di coltre nera occulta il volto del pastore nella novella di Hawthorne, così appare occultato ed enigmatico lo stesso atto creativo, l’abissale distacco dal testo di riferimento, il montaggio di immagini oniriche che galleggiano nella macchina teatrale. Il tema della “religiosità” è qui traslato nel rapporto di una comunità (quella formata dagli spettatori) con la mancanza di risposte, con il collassare vorticoso del senso.

E proprio un vortice apre Il velo nero del pastore. Accolto in sala lo spettatore si trova dinanzi ad un sipario azzurro che nasconde l’intera scena. Sulla destra e sulla sinistra due abatjour collegano il palcoscenico alla platea, mentre, in alto, sulla cornice di finto marmo verde che chiude lo spazio scenico, troneggia la scritta Eukaryota animalia vertebrata tetrapoda mammalia, vale a dire l’appartenenza biologica del genere umano. Lo spegnersi improvviso di ogni luce e un rumore assordante danno il via ad un vertiginoso precipitare nella meraviglia dell’immagine. Masse di materia argentea e nera si spostano sul palcoscenico come agglomerato di forme terribili alle quali è impossibile dare un nome. La macchina teatrale diviene soglia attraverso la quale spiare un universo imperscrutabile, l’ombra cupa che separa l’azione artistica dal mondo. Richiuso, il sipario scorre lentamente sul palco lasciando emergere o cancellando frammenti di immagini provenienti da un altrove indefinito. Ed è proprio su questo altrove – volto nascosto del pastore – che si incunea l’opera di Castellucci. Il tappeto sonoro creato da Scott Gibbons, le azioni sceniche di Silvia Costa, la drammaturgia di immagini collegate attraverso un montaggio delle attrazioni di matrice eizensteiniana, sono solo superficie, specchio di uno specchio, immagine di un’immagine. Lo svelamento della costruzione tecnica di ogni effetto scenico – minuziosamente ricercato dall’artista – è utile non ad uno straniamento dal carattere brechtiano ma a sottolineare l’importanza di un “fuori campo” (da intendersi in maniera prettamente cinematografica) in cui qualcosa di assolutamente misterioso accade, emergendo di volta in volta, in forma trasfigurata e onirica sulla scena. Non è un caso se proprio l’immaginario cinematografico (di un cinema inteso come prima macchina delle meraviglie) sembra permeare l’intero spettacolo, fino al riferimento esplicito ad uno dei più famosi cortometraggi dei fratelli Lumière e l’entrata in scena di un’enorme locomotiva che, lentamente, sembra arrivare sugli spettatori.

Qualcosa è accaduto: come nel 1896 le immagini di quella locomotiva in bianco e nero, caratterizzate da una stupefacente profondità di campo, avevano sconvolto gli spettatori negli scantinati del Grand Cafè parigino, così, questo treno, apparso da un universo sconosciuto e diretto verso un altrove altrettanto ignoto, disturba improvvisamente lo sguardo, lo catapulta in una dimensione dove il senso non ha più nulla di umano. È il théaomai, l’atto del vedere, del credere alla visione, ciò che Castellucci interroga. Questo sovrabbondare di immagini di immagini, infatti, nasconde in realtà la loro disperata sottrazione. E, come nella novella di Hawthorne, più che il pastore è la comunità di credenti ad essere protagonista della narrazione, così nello spettacolo di Castellucci è lo sguardo dello spettatore, posto dinanzi a questo provocante buco nero, a divenire centro gravitazionale dell’intera opera.

In scena rimangono solo appigli emotivi, la puntura velenosa di microscopiche, confuse e inspiegabili visioni, destinate a crescere nella mente di una comunità, a divenire tarlo disturbante. Inutile cercare un senso, inutile scovare tutte le dinamiche meta-teatrali di questa rappresentazione. Non resta che fissare un velo nero sotto il quale le immagini non sono ormai che polvere. Provare uno strano terrore pensando a come, sotto questa nube, si siano, infine, dissolte.

Matteo Antonaci

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visto al Romaeuropa Festival 2011 [vai al programma] 10 – 13 novembre
Teatro Vascello [vai al calendario 2011/2012] Roma

Il velo nero del pastore
Messa in scena, scenografia, luci Romeo Castellucci
Musica originale Scott Gibbons
Assistente alla regia Silvia Costa
Assistente alla drammaturgia Piersandra Di Matteo
Sculture e meccanismi Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso
collaborazione alla scenografia Giacomo Strada Produzione Benedetta Briglia,
organizzazione Gilda Biasini, Valentina Bertolino, Cosetta Nicolini
Produttore delegato Societas Raffaello Sanzio
Produttore associato Théâtre National de Bretagne / Rennes
In coproduzione con Theater der Welt 2010, deSingel international arts campus / Antwerp, The National Theatre / Oslo Norway, Barbican London e SPILL Festival of Performance, Chekhov International Theatre Festival / Moscow, Holland Festival / Amsterdam, Athens Festival, GREC 2011 Festival de Barcelona, Festival d’Avignon, International Theatre Festival DIALOG Wroclaw / Poland, BITEF (Belgrade International Theatre Festival), Spielzeit’europa I Berliner Festspiele, Théâtre de la Ville / Paris, Romaeuropa Festival 2011, Theatre festival SPIELART München (Spielmotor München e.V.), Le Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène Européenne, TAP Théâtre Auditorium de Poitiers – Scène National, Peak Performances @ Montclair State – USA

Si ringraziano: Centrale Fies-Dro, Eric Vautrin e Comune di Senigallia – Assessorato alla Promozione dei Turismi e Eventi/Amat per aver ospitato l’ultima fase di prove dello spettacolo

L’attività della Socìetas Raffaello Sanzio è sostenuta dalle seguenti istituzioni italiane: Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Regione Emilia Romagna; Comune di Cesena/Emilia Romagna Teatro Fondazione

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