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Atlante IX – Tra la pineta e il mare è l’arte clandestina

Quasi come fosse Natale. Tovaglia rossa e tavola imbandita, di assegnare i posti non c’è bisogno, quando ci si sente in famiglia uno vale l’altro, ogni commensale vicino di sedia o di fronte porta lo stesso sorriso e lo stesso desiderio di essere a questo tavolo. Potrebbe essere una cena come le altre, ma questo calore intimo e questa sensazione di appuntamento esclusivo fanno pensare alle riunioni per le feste, in cui si riscopre di averla una famiglia e ci si acquieta da tutti i pensieri fuori di qui. Questo accade, quando un artista di nuovo incontra – riflesso in occhi altrui – l’amore per l’arte con cui convive, lo spirito che l’ha condotto fino a questi anni, profumi familiari e calorosi che vivificano antiche bellezze. Simile è la sensazione ad essere ospite – segreto e onoratissimo, il mio Atlante – di un desiderio, quello di Claudio Morganti che per ricercare quella volontà sopita alla creazione ha voluto attorno a sé gli amici che hanno fatto la storia del teatro italiano, e ancora la fanno: Danio Manfredini, Raffaella Giordano, Alfonso Santagata, Riccardo Caporossi, e con loro altri giunti qui a portare un grande senso di umanità e un dignitoso atto di presenza.

Il Castello Pasquini, dove Andrea Nanni sta portando oggi nel segno di Armunia l’esperienza di Massimo Paganelli di tanti anni, non poteva che essere il luogo deputato a un simile desiderio di comunità; sembra di essere dentro Il declino dell’impero americano di Denys Arcand, o seguendo la camera di Kasdan per Il grande freddo, perché l’incontro dura due giorni interi, dal tramonto di sabato all’alba di lunedì, e tanto c’è da rinnovare, ricordare, di tanto ancora c’è da sorprendersi. Nei ricordi allora riaffiora quella ruvida intensità di una vocazione, tornano i segreti riposti nelle pieghe dei propri spettacoli, si affastellano memorie perché ne riemerga il senso profondo che ha portato fin qui: è questo l’intento di Morganti che ha riunito amici vecchi e nuovi, o sconosciuti, secondo un’unica bandiera che è la propria immutata sensibilità alla creazione. La mattina dell’incontro vero e proprio, nella Villa Celestina fra la pineta Marradi e il mare di Castiglioncello, per esporre le proprie riflessioni sullo stato della propria ricerca ci si dispone in cerchio: nel mezzo i relatori convocati per nome, perché scaldino questo focolare, tutti attorno sono gli altri convenuti qui con la chiamata di Morganti, quella lettera aperta agli artisti che tanto mosse all’appartenenza; nel primo cerchio, girone per una volta non infernale, siedono anche i maggiordomi officianti, intellettuali e studiosi: Piergiorgio Giacché, Massimo Paganelli, Andrea Nanni e Attilio Scarpellini. Ma è quando i cerchi si mescolano, via via nelle ore, che l’atmosfera si fa davvero viva e sembra lanciare sé stessi, la propria disposizione immutabile, oltre il risultato fin qui ottenuto: lo stimolo, continuo spazio sempre sul punto di allargarsi, si arricchisce di ogni contributo, ogni intervento ridona un po’ della propria abnegazione a tutti, un po’ della passione e tanto di quel sacrificio cui tutti sono stati destinati.

Sacrificio. Già. Perché l’arte qui definita clandestina (Morganti rivela paternità di Antonio Neiwiller) è una scelta di differenza, di rischio e di coraggiosa affermazione, è vero, ma anche un’imposizione degli eventi che ne hanno, nel tempo, mitigato l’esplosiva potenzialità: nelle esperienze c’è un continuo rivolgimento alla parte oscura, una sorta di risacca espressiva della ricerca, quell’assopimento derivato dall’annientamento con cui i potentati del teatro nazionale hanno relegato ai margini un mondo così vivo e il solo in grado di riaffermare – per un teatro italiano che ha vissuto momenti di grandissimo rilievo nel Novecento – quella rilevanza culturale che non mi stancherò mai di rivendicare.

Tutto è nato da un grande salone al terzo piano del Castello, si è spostato nella villa sul mare, nel Castello è tornato per confrontarne il segno: ma lungo il percorso non ha taciuto la densità delle loro parole, che tutte in una stanza non ci stanno e allora da questi interni viene voglia di guardare fuori: da una parte l’intrico di pini sottili e altissimi che si vestono di boscaglia fitta, dall’altra il mare e le sue indefinite aperture, la sua vastità di pensiero, da cui e a cui declamare ogni volta la propria intima appartenenza agli elementi universali; nello sguardo e le due direzioni capisco allora sempre di più perché sono qui: stretta e larga, rischiosa e pacificante, rivoluzionaria e archetipica è – in teatro – l’opera d’arte.

Simone Nebbia

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nota di pubblicazione

Alla fine dell’incontro Claudio Morganti ha rilanciato chiedendo a tutti gli artisti le loro relazioni sullo stato della loro ricerca artistica. Noi di Teatro e Critica le pubblicheremo, da qui in poi, nello spazio sotto questo articolo, sperando possa diventare un luogo vivo quanto l’incontro da cui tutto è generato. SN

PDF relazioni:

Claudio Morganti
Giuseppe Boy
Teatro Caverna
Milena Costanzo
ErosAntEros
Effetto Larsen
UgoGiulio Lurini
Paolo Musio
OlivieriRavelli_Teatro
Monica Perozzi
Panda Project
Quotidiana.com
Larry Volta
Opera
Riccardo Caporossi
Cesar Brie
Danio Manfredini
Raffaella Giordano
Alfonso Santagata
Rita Frongia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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