Ci era capitato di recente con la Trisha Brown Dance Company, passata dal Teatro Olimpico per Romaeuropa, di interrogarci sul senso profondo rappresentato da vedere oggi il lavoro di compagnie nate intorno a un territorio particolare e, soprattutto, a un particolare momento storico. È senza dubbio il caso di Bread & Puppet Theater , lo storico gruppo nato a New York nel 1962, famoso per le parate di piazza con i giganteschi pupazzi di cartone, ma ancor di più per il profondo impegno politico, per la lotta aperta a certe spigolose cause pubbliche. La compagnia di Peter Schumann, attualmente residente a Glover, Vermont, arriva a Torino con la più recente produzione, Man of Flesh and Cardboard (Uomo di carne e cartone in italiano) che, ospitato da Prospettiva 150, chiude contemporaneamente anche il Festival Incanti, quest’anno centrato sul rapporto tra teatro di figura e storia. Nel caso di Bread & Puppet questo binomio funge effettivamente anche da paradigma per l’intero lavoro della compagnia, per i suoi presupposti programmatici. Lo spettacolo fa parte della mobilitazione nazionale contro la condanna a morte del soldato Bradley Manning. Nel giugno 2007, Saddam giustiziato da 4 anni e la guerra già in via di chiusura, durante un giro di ricognizione alla periferia di Baghdad, un elicottero Apache dell’esercito statunitense fa fuoco su un gruppo di civili uccidendo 12 persone disarmate. Manning, ingegnere informatico, è alla workstation della base il giorno del massacro. Tre anni dopo viene denunciato da un hacker suo conoscente, secondo cui Manning avrebbe confessato via chat di aver inviato il video del raid, dal titolo Collateral Murder, al celebre portale Wikileaks di Julian Assange. Dopo due mesi di detenzione in Kuwait, Manning viene trasferito al carcere di Quantico, Virginia, dove le condizioni della sua detenzione risultano, secondo la denuncia di Amnesty International, «assimilabili alla tortura». Da lì parte la mobilitazione internazionale che mira a strappare Manning alla custodia militare per farlo giudicare da un tribunale civile, nel tentativo di evitarne la condanna a morte. In questo caso la corte marziale applicherebbe la pena capitale ai danni di un essere umano colpevole di aver detto la verità.
È lo stesso Peter Schumann a introdurre lo spettacolo, rivelando la funzione di protesta e di schieramento per la causa. Un brevissimo intervallo divide quelli che potrebbero essere due spettacoli separati. La prima parte offre una rappresentazione visiva della scena del massacro, la seconda, presentata come una “puppet opera”, illustra il procedimento che ha portato Manning alla situazione attuale. Nonostante l’uso vincente delle musiche dal vivo, che “cantano le battute” mentre in scena gli attori slegano la mimica interfacciandosi con un coro “alla greca” che Schumann dirige sul momento, questa seconda parte mette in campo un linguaggio troppo frammentato la cui energia si perde in una traduzione simultanea sommaria che toglie poesia al testo e spezza il ritmo che dovrebbe governare l’azione. Una troppo netta virata brechtiana si propone di spiegare le azioni prima di ciascun quadro, senza risparmiarsi neppure i cartelli esplicativi, dilatando i tempi in un respiro eccessivamente didascalico. La presenza carismatica e affascinante di Schumann che, mobile sulla scena, suona un violino scordato, sul finale libera un canto di grande potenza e dirige gli attori sul palco come avrebbe fatto Kantor, non riesce tuttavia a rendere sufficientemente fluide le azioni del coro, composto (in un pomeriggio) dagli allievi del Teatro Stabile di Torino e troppo spesso dispersi in sembianze laboratoriali.
Ma è nella prima parte che lo spettacolo concentra invece tutta la straordinaria potenza di questa unica tradizione. Da un lato del palco Schumann, indicando i particolari e commentando con vagiti pre-logici, sfoglia le pagine di stoffa di un block notes gigante su cui sono dipinti, in un tetro bianco e nero ad acquerello, i fotogrammi stilizzati del raid degli Apache. I civili a passeggio sono poco più che una piccola folla di segni neri, spezzati a volte da primi piani di facce urlanti e scritte frammentate come i “wordcuts” con cui i rapitori compongono le richieste di riscatto. E le parole sono “guerra”, “libertà”, “verità”, contornate di avverbi di luogo e tempo. Sull’ultima pagina conparirà la domanda “Where are we going?”.
Sulla scena i celebri pupazzi giganti, teste urlanti, bocche che divorano e braccia che avvolgono tutto avanzano dal fondo, incombono dai lati, scorrono sul fondale, vengono calati dall’alto come bare sottoterra. Il tutto in quel rigoroso bianco e nero che sa di cose estinte e cinegiornali, mentre un gruppo incappucciato offre una terrea colonna sonora fatta di digeridoo e dialoghi dal ritmo meccanico. Si tratta della trascrizione originale delle agghiaccianti comunicazioni radio tra i piloti dell’elicottero e il comando, in tutto e per tutto simili a una chiacchierata beffarda di fronte all’ennesimo videogame di guerra, in cui si sceglie su chi sparare. Ascoltare per credere (vai al video).
A stupire davvero è come un linguaggio del genere, così del tutto artigianale e, appunto “di cartone”, conservi la propria potenza anche oggi. È un linguaggio che narra, non che viene narrato. È forse questo l’unico modo perché un’operazione come quella di Bread & Puppet conservi ancora un senso. Anche adesso, anche così lontano dall’orizzonte degli eventi, anche in un luogo così profondamente astruso come un teatro all’italiana. Il bel libro di Sergio Secci parlava di “teatro dei sogni materializzati”.
In non più di mezz’ora ha luogo una sublimazione. Vediamo gli ingranaggi, tutto avviene lì. E lo stesso accade alla vicenda narrata, vittima di un cortocircuito analitico in cui di essa rimane solo una reminescenza. L’ombra di un sogno lasciato lì a invecchiare sul cuscino. In questo linguaggio onirico la chiarezza delle date si allontana, la sequenza delle notizie subisce interruzioni e la coscienza stessa del fatto di cronaca muta in materia liquida, si lascia andare ad altro stato. E non sappiamo più che cosa sia successo davvero e che cosa no. Come in un sogno.
Sergio Lo Gatto
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visto il 28 ottobre 2011
Teatro Carignano – Festival Prospettiva 2011 [programma Prospettiva 2011] [stagione 2011/2012 Teatro Stabile di Torino]
Torino
bread & puppet theater
Man of flesh and cardboard (manning &truth)
con Peter Schumann, Maura Gahan, Gregory Corbino, Susan Perkins, Katherine Nook, Damiano Giambelli, Genevieve Yeuollaz
ma cosa c’entra la foto con lo spettacolo?