In un’intervista Ricardo Bartís parlava dell’onnipresenza del concetto di tempo all’interno del suo lavoro di drammaturgo e regista, della differenza antica tra tempo storico e tempo della narrazione. Il primo inteso come la convenzione secondo la quale il nostro vivere si organizza, il secondo come una rete non lineare di associazioni che ricrea da zero l’intera dimensione, dando la possibilità a un racconto di assumere (e dunque trasferire) la fisionomia emotiva di ogni singolo evento.
A farne le spese è senza dubbio la realtà effettiva di quegli stessi eventi. Ma in questo stesso sacrificio di oggettività si situa la potenza di un discorso poetico, del quale un lavoro teatrale ha bisogno per centrare la propria istanza. «Il passato – sosteneva Bartís – fluisce sul nostro presente. Il fatto che la vita ci imponga di misurarlo ci sottopone a un esercizio di repressione continua, di controllo. In scena tutto questo non c’è». Annullati i vincoli imposti da quella repressione, il racconto drammatico sarebbe libero di compiere salti temporali e incanalare tra le pieghe di una memoria emotiva il flusso di un messaggio preciso capace di includere implicazioni filosofiche o, in molti casi, politiche. Questa era stata fin dall’esordio l’opportunità colta dal regista di Buenos Aires per parlare di un’Argentina dilaniata dalla dittatura e sepolta dalle ceneri del nichilismo. La strategia per una rinascita, che avrebbe portato a nuove vitalità, aveva come centro proprio il concetto di tempo, come se sovvertirne l’ordine non si limitasse ad essere un rifugio, una fuga, ma un mezzo reale per rinchiudere certe riflessioni in uno spazio protetto, carpirne le potenzialità e cucirvi attorno la veste adatta per mandarle poi fuori nel mondo come azioni significanti. Da qui la scelta metodologica di lavorare con la scrittura scenica: partire da improvvisazioni di gruppo e lasciare che temi e conquistino funzione e spazio propri in un percorso graduale. Così le battute segnano il passo di un testo che non è mai davvero finito e l’energia in scena si articola per contrasti. Ancora una volta c’è un forte richiamo al tempo della memoria, che taglia fatti a proprio piacimento e, laddove ferma un particolare, ferma anche la sua antitesi. Ed è su quest’ultima parola che il lavoro di Sportivo Teatral muove da sempre gli ingranaggi. Nonostante il pregio di un approccio non troppo intellettuale e più sanguigno, El Box, la patetica festa di compleanno di una donna pugile che vorrebbe risolversi in un terreo affresco della violenza, non riesce forse del tutto a formulare una domanda chiara sulla materia politica che affronta. Eppure nel caos sciatto delle battute confuse e lasciate lì, in quell’inelegante trambusto di umanità affiora il senso valido di un rumore di fondo, quello umano, debole ma presente, pur nella lontananza.
In sede di laboratorio, Bartís era riuscito a compiere un piccolo incantesimo, meravigliando tutti i partecipanti con un’azione a sottrarre: riempita la scena di convenzioni e lunghe tirate su una recitazione che avrebbe dovuto lavorare come una macchina della verità inversa (selezionando solo il falso), aveva poi fatto detonare nelle improvvisazioni degli attori schegge di vissuto estremamente privato, fino a creare una materia ibrida, che non toccava nessuno, ma riguardava tutti. Spettatori compresi. Una lezione di distanza, piccolo saggio di divaricazione della realtà.
Sergio Lo Gatto
Articolo apparso anche su L’Ottavo Peccato – 41 Biennale di Venezia