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Biennale Teatro 41. Per un festival-laboratorio

Hamlet – Thomas Ostermeier

Nel lontano maggio 2011 avevamo partecipato alla conferenza stampa di presentazione dell’Arsenale Danza (svoltosi dall’11 maggio al 26 giugno) e del Festival Biennale Teatro, che invaderà Venezia dal 10 al 16 ottobre. Nella Sala della Stampa Estera a Roma il presidente Paolo Baratta e i direttori artistici dei due settori (rispettivamente Ismael Ivo e Álex Rigola) avevano incontrato i giornalisti per illustrare quella che a tutti era sembrata come una virata in corsa, in tempi di crisi, verso un nuovo modello di gestione della creatività. Baratta aveva rivelato le quote assegnate dal Fus alla Biennale, spiegando come Arte e Architettura possano contare su un portafoglio più ricco e siano dunque in grado di mantenere alto il livello delle attività e quanto invece sia insufficiente il milione e 350.000 euro dedicato a Danza, Musica e Teatro. Soprattutto quando 80.000 vanno al primo di questi tre e il resto viene diviso tra gli altri due. E ricordiamo bene il sorriso costernato di Ivo, il suo annuire con sguardo incredulo accarezzandosi la testa liscia e nera.
La strada è stata dunque quella di un “investimento” (citiamo dal discorso di Baratta) orientato alla formazione. Fare della Biennale un porto in cui possano attraccare diverse creatività da tutto il mondo, un modo, per gli artisti, per misurarsi “con se stessi e con le proprie capacità”. Ed ecco così spiegata la dicitura “Laboratorio Internazionale di Arti Sceniche”. La prima tappa si era consumata nell’autunno-inverno 2010/2011, quando alcuni di noi “giovani” cronisti avevano offerto una “testimonianza criica” per raccontare l’esperienza dei laboratori di grandi maestri della scena come Romeo Castellucci, Rodrigo Garcia, Jan Lauwers, Ricardo Bartís, Thomas Ostermeier, Calixto Bieito e Jan Fabre (leggi gli articoli). Ora sono proprio questi nomi a comporre la spina dorsale della programmazione della quarantunesima edizione del Festival. Abbiamo avuto, noi, modo di sperimentare quella modalità che, nelle parole di Rigola, “concede la possibilità del contatto, qualcosa che va oltre la semplice ricezione dello spettacolo”. Il resto del programma sarà ora occupato da nomi non meno risonanti, come Josef Nadj, Virgilio Sieni e Stefan Kaegi. All’insegna del concetto di interazione, su cui qualsiasi laboratorio si basa, a uno spettacolo di repertorio si aggiunge la richiesta di sfida di dar vita a uno über-lavoro collettivo, un progetto sperimentale che vuole farsi corpo organico.Questa settimana veneziana sarà dunque da un lato occasione per gran parte del pubblico italiano di vedere alcuni lavori anche non nuovissimi ma di difficile circolazione sul nostro territorio, come Amleto di Ostermeier, Isabella’s Room di Lauwers, El Box di Bartís, Sul concetto di volto nel figlio di Dio di Castellucci [recensione], Muerte y reincarnación de un cowboy di García [recensione], Desaparecer di Bieito, Bodenprobe Kasachstan di Kaegi, Osso di Sieni, Prometeus Landscape II di Fabre (in prima nazionale) e Woyzech di Nadj; dall’altro il campo di azione per un esperimento collettivo. 15 minuti di performance, realizzata da ciascun regista, si incastoneranno con gli altri a creare un “mega-spettacolo” sui sette peccati capitali, dal titolo 7 Sins, (Sette Peccati, appunto).  L’Ottavo peccato è invece il titolo del foglio quotidiano che, sotto la guida di Andrea Porcheddu, lo stesso gruppo dei “giovani testimoni critici” dello scorso autunno con qualche valida aggiunta redigerà durante la kermesse veneziana.

Questa pubblicazione tenterà di dar conto degli sviluppi di un festival complesso, per molti versi sui generis, che ospiterà anche il laboratorio sull’uso del video (l’itinerante Video Walking Venice di Kaegi); quello di movimento, curato da Sieni e Nadj; sul “disegno e drammaturgia della luce” diretto dallo spagnolo Carlos Marquerie (titolo Aproximación a una práctica escénica entre las luces y las sombras); sul video live con Álex Serrano (Imagen y escena); sul verso shakespeariano inglese e infine un atelier inteso a costruire le scene per lo spettacolo di Bartís. Jan Pappelbaum, Jum Clayburgh, Margherita Palli, Nick Ormerod/Declan Donnellan e Anna Viebrock condurranno poi un ciclo di conferenze sulla scenografia.
Del progetto Young Italian Brunch, che vede cinque compagnie italiane (Anagoor, Muta Imago, Ricci/Forte, Santasangre e Teatropersona) occupare la fascia prandiale della programmazione abbiamo già parlato qui.

Un commento personale, non espresso tuttavia per la prima volta: troppo spesso questo sistema dimostra di ragionare ancora per categorie, assegnando etichette che non sempre sono utili o comunque sufficienti a rappresentare l’oggetto cui si riferiscono. Se in prima istanza questo appare sbagliato o inconcludente, a volte addirittura nocivo, dobbiamo forse cominciare anche a pensare che tale atteggiamento fa parte di un rischio da correre inevitabilmente, ogni volta che si desideri portare lo sguardo un po’ più in là del proprio naso. Sostenere uno sguardo internazionale è un’operazione complessa, che a volte richiede certe scelte di semplificazione in rotta verso la diffusione di un’idea di arte, da non scambiare dunque necessariamente per compromessi.

Sergio Lo Gatto

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