“I figli uccidono i padri. I figli diventano padri”. Risuonavano queste parole nella sala del Piccolo Arsenale, le pronunciava un attore di Jan Fabre che interpretava il Prometheus Landscape II, un paio di giorni fa, nella scena del maestro di Anversa che si ispira al testo eschileo del Prometeo incatenato.
Nelle rotte di Atlante passa un vento leggero, le folate di Roma sono calde e carezzevoli, ma quando ci si sposta a latitudini diverse è diverso anche l’impatto del vento sulle vele. E sugli orientamenti. Un altro vento allora, più umido e carico di salse abitudini patinate, ha portato Atlante sulle traiettorie della Biennale di Venezia per la quarantunesima edizione di questo appuntamento internazionale, dove rintracciare ognuno dei Sette Peccati Capitali, cui il festival è quest’anno dedicato.
Sette peccati. Accidia. Avarizia. Gola. Invidia. Ira. Lussuria. Superbia. Teatro è quell’arte che li compie tutti nella stessa scena, che soltanto accadendo si misura con quello scarto fra il vuoto e la densità, fra il passo e l’orma su una battigia di spiaggia – arte effimera – che presto il mare cancella. Chi sceglie l’arte, dunque, è uomo che tenta di superare l’umano, che sceglie il tradimento della realtà per il troppo amore che le porta, assimila i patimenti e li conduce dove sanno mutare di segno, liberarsi, ma proprio per questo tradirsi.
Sette peccati. Quanti ne ha commessi la critica in questi anni? L’avarizia del confronto e l’accidia della curiosità, di gola e di lussuria son pieni i festival e le stagioni teatrali, dell’ira e dell’invidia le polemiche infruttuose e i litigi decennali, ma più di tutti è la superbia che pulsa l’inchiostro di tante penne, il peccato più pericoloso perché all’arte non concede nulla, non ne comprende l’espressione e si erge a censore o incensatore con la stessa necessità di magnificenza. La propria.
Che errore ed errare distinguano la loro radice hai ragione, caro Palazzi (in questa lettera dell’11 ottobre 2011 in cui rispondi ai precedenti viaggi di Atlante): “maturo” spero non si diventi mai davvero, ma si mantenga una cedevolezza nello sguardo che torni a farci innamorare, ripetere quel miracolo mai davvero avvenuto e sempre lì per avvenire. Ma se l’errore mantiene quella radice nell’erranza, allora di maturità credo ci sia bisogno proprio per compiere quelle scelte che ci portino a “far sì che la critica teatrale esca un po’ da quei confini strettamente individuali che la soffocano”, come tu dici, arrivando ad “inventare e per così dire a ‘istituzionalizzare’, nei siti ai quali collaboriamo, una specie di spazio permanente di confronto fra le testate e le generazioni”.
Tra padri e figli è solo questione di tempo, sembrano dirci Eschilo e Fabre, e allora speriamo di non perderne in polemiche che rischiano di bloccare il grande epocale fermento che ci sta coinvolgendo, artisti o critici che si sia: Renato Palazzi in una sala di Ca’ Giustinian e di fianco Andrea Porcheddu illustrano lidi lontani per dodici marinai attenti, nella plancia di questa redazione comune de L’Ottavo Peccato. È allora che Atlante si moltiplica, di vento nelle vele ne soffia molto di più: in dodici a spingere la stessa imbarcazione verso un approdo che sicuro non diventi mai ma che rinnovi ogni volta “l’immaturità”, in dodici e qualche timoniere avveduto, che di mari ne ha visti tanti, magari stavolta si arriva davvero.
Simone Nebbia