La strada della terminologia si divide in un bivio: per riferirsi ai sette fatidici sostantivi c’è chi usa la parola “peccato” e chi preferisce usare “vizio”. Il primo termine sembra avere in qualche modo un’accezione più clericale, il secondo allunga il braccio ad afferrare i margini della psicanalisi, ma entrambi rappresentano uno dei tratti peculiari dell’umano, la tendenza alla deriva.
Il quarantunesimo festival Biennale Teatro ha settato la propria bussola su questa indagine. Ecco un lavoretto di sartoria che mira a vestire addosso a ciascuno dei sette maestri e dei relativi spettacoli presentati un peccato capitale. Laddove per peccato non s’intende un giudizio morale, quanto la seduzione lucida che si attraversa nel tragitto verso un’ossessione cieca.
Un percorso, ancora una volta. Lo sguardo dello spettatore comanda il ‘concetto di volto’, con quell’incombente coppia d’occhi così presenti e insieme così lontani, nella loro sovraesposizione iconografica. La perfezione formale di Romeo Castellucci è però materia che il pubblico si trova a confrontare da solo, scegliendo il proprio coinvolgimento. La sua accidia è la nostra opportunità.
Quadrato e sapiente eppure algido, un po’ avaro. L’Amleto di Thomas Ostermeier è glaciale, vincente sovrano che conquista l’attenzione ma tenta di bastare a se stesso, fino a far mancare qualcosa allo spettatore, in attesa di un atto di generosità.
Nella stanza di Isabella, Jan Lauwers “needs company”. E il risultato è un ensemble esplosivo, flusso costante di energia. Memorie si affastellano in una bulimia di segni che ci raffigura tutti. Per tornare a un teatro politico su misura per l’anima, sceglie il peccato di gola e ingoia la vita. The show must go on (and on, and on).
Ricardo Bartís padroneggia quella teoria che vorrebbe fuggire, certe scelte di abbandono alla scrittura scenica acquistano il sapore di un’assenza, un pugno allo stomaco che il pugile di turno è riuscito a schivare. Ma forse, più che una tendenza alla difesa, la sua è una tensione al colpo perfetto. E a definirlo invidioso è la sua stessa autoironia.
Quella con cui Jan Fabre cavalca la superbia: tra sapienza scenico-visiva e immagini folgoranti, un odore di libro sacro punge la coscienza e aforismi forse troppo assoluti lasciano molte risposte senza domanda. In un’assenza, in una negazione si condensa la lussuria di Bieito. Il suo affresco intorno a Poe dissipa la nebbia usando una pudicizia disarmante; in questo bagno turco di parole, il corpo perde ogni barlume di sensualità.
Nel disordine, nel frastuono, nel cattivo gusto esplode l’ira di Rodrigo García verso la nostra incapacità di essere davvero animali sociali. Calpestare il silenzio è una violenza assoluta, mai davvero gratuita, se non quando il mostro della durata ne strangola la forza. Ma la calma, qualcuno dice, è la virtù dei morti.
La Biennale 41 ruota attorno a due nuclei, uno metodologico l’altro tematico: il laboratorio e il peccato. Quando tutto è così scandito, diviso in piccole nicchie, è davvero arduo non farcisi rinchiudere dentro. E noi, con queste righe lo dichiariamo, non ci siamo riusciti.
Sergio Lo Gatto
Articolo apparso anche su L’Ottavo Peccato – 41 Biennale di Venezia