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Squarci su una ricerca. Intervista a inQuanto teatro

Roberta Ferraresi con InQuanto teatro

Caffè dei Libri, uno degli angoli più belli e tranquilli di una Bassano in fermento (il sabato pomeriggio delle passeggiate, il boom di Infart e la conclusione di B.Motion), a pochi passi dal fiume e dalla folla che sembra invadere la città. Qui, l’appuntamento con inQuanto teatro, giovane compagnia formatasi l’anno scorso nei pressi di OperaEstate (complice il progetto dell’Attore Performativo) e reduce dalle finali del Premio Scenario con Nil Admirari (che le è valso una menzione speciale da parte della giuria). I suoi componenti sono di nuovo a Bassano certo per presentare proprio quei venti minuti di studio, ma anche per una residenza in cui stanno sviluppando ulteriormente quello stesso lavoro: hanno accompagnato la nostra permanenza fin dal primo giorno, dalle colazioni assonnate alle serate interminabili, dalle chiacchiere pomeridiane in qualche pausa nel giardino di Palazzo Bonaguro alle discussioni più intense su quello che si è visto ogni sera in scena.

Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone (il quarto, Matteo Balbo, non è potuto esserci) ci aspettano al tavolino più appartato del caffè. Arriviamo un po’ in ritardo, di corsa, facendoci spazio sul Ponte fra raggruppamenti di personaggi molto molto urban-street e assembramenti di alpini in visita. Siamo qui per parlare di teatro e di ricerca, di com’è nato Nil Admirari e, soprattutto, di come sta crescendo.

Simone Nebbia: Come prima cosa volevamo chiedervi com’è iniziato tutto, quando avete capito che il progetto era nato?
Andrea Falcone: Accade come un colpo di fortuna, te ne accorgi a cose fatte: un blocco di ghiaccio che prima era acqua… è successo qualcosa di eclatante, ma non sapresti dire quando… Si può dire che il lavoro che sperimentiamo sia quasi combinatorio: come nella chimica, la reazione può andare ben al di là delle aspettative, di quello che ognuno di noi singolarmente ha portato al gruppo.
In questi giorni questa domanda ci è stata posta più volte. E ci ha messo un po’ in difficoltà, perché non abbiamo iniziato – e questo non è un caso: ci rispecchia molto – da un pensiero, ma da un’immagine che ci parlava. Questo in qualche modo è quello che facciamo anche per costruire le scene: condividiamo un’immagine di cui non abbiamo una spiegazione e di cui non vogliamo dare una narrazione, ma cerchiamo di ricrearla, di farla vivere, di esplorarla. E di mantenere intatto quanto più possibile il senso dell’equivoco e di instabilità…
F.R.: …di fragilità e di umanità…
A.F.: Questa è la nostra idea di storia, di passato, di realtà che portiamo in Nil Admirari: l’atto di ricordare è qualcosa che si fa aggiungendo pezzi e reinventando qualcosa, piuttosto che rimanendo fedeli a una realtà. Questo è il nostro modo di costruire queste scene ed è il modo che stiamo esplorando anche qui a Bassano, perché il frammento scenico che abbiamo portato è esito di una ricerca, ma non ne era l’obiettivo: Nil Admirari non è uno spettacolo, ma piuttosto lo specchio di quello che stiamo elaborando e lavorando.

Roberta Ferraresi: Ci volete svelare qual è questa immagine?
A.F.: “C’è una stanza vuota…” – addirittura nei primi cinque minuti di lavoro che abbiamo presentato al Premio Scenario, iniziavamo dicendola, descrivendola…
F.R.: Ma nel processo di creazione, poi, questo pezzo è stato eliminato. È uno scarto importante quando, lavorando a un progetto, apparentemente si perdono gli elementi forti; ma per te rimangono e così possono diventare altro.
A.F.: Comunque si tratta di una fotografia di Robert e Shana Parkeharrison: è un interno completamente ricolmo d’acqua in cui affiorano oggetti o parti di oggetti con una calma innaturale.
G.B.: È una fotografia che non cattura il frammento o il momento, ma dà l’impressione dell’attesa, che ci sia qualcosa che è successo, che sta lì e galleggia…
F.R.: Qualcosa di catastrofico è successo, e da lì partiamo, senza però ricordare il passato… Come aprire un libro a metà e cominciare a leggerlo da lì, che è la situazione in cui ci troviamo, quello che siamo.
A.F.: Fantasticando su questa immagine di allagamento abbiamo iniziato a cercare dei materiali che ci permettessero di ricrearla, tra cui il tappeto specchiante che ancora usiamo. E poi, via via, ci siamo accorti che stavamo facendo vivere quell’immagine senza bisogno di realizzarla. Ad esempio, la presenza della finestra si è trasformata in una specie di schermo (che, invece di aprire, blocca l’orizzonte, riflettendo la nostra ombra e i nostri movimenti) e l’idea di una superficie permeabile in cui gli oggetti affiorano è mutata in un pavimento che, coprendo il palcoscenico, lo trancia…

S.N.: Parlando del vostro lavoro tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria… Cosa v’ha fatto il passato?
F.R.: Il passato è una cosa che ci dice molto…
A.F.: Il nostro passato è molto presente. Sovvertendo la celebre sentenza sartriana “Io sono il mio passato”: noi non siamo il nostro passato, perché a livello collettivo è qualcosa di impersonale e a ben vedere fasullo, che viene inventato volta per volta. A livello culturale, godiamo della vita in città d’arte meravigliose, come Firenze o Bassano; e vediamo che gli spazi per il passato aumentano, vengono nuovamente inventati, vengono scoperti quartieri medievali, mesi medicei quando anche di Medici non ce n’è più traccia… Dante a Firenze ha tre o quattro case, noi in tre o quattro non ne abbiamo una. Questo intendiamo per passato: una creatura che viene creata ed è accanto a noi, con cui abbiamo a che fare. Questa operazione di affastellare, di comporre questa specie di mostro – da qui il titolo del nostro secondo pezzo, Monstrum – ci diverte ed è quello che anche noi vogliamo fare in scena.
F.R.: Ed è quello che stiamo facendo in questi giorni qui a Bassano. Stiamo prendendo questo passato e lo stiamo facendo diventare una cosa che chiamiamo Monstrum, qualcosa di incredibilmente lontano da noi, di diverso, di vivo… che ci spaventa.
A.F.: L’anacronismo, l’avvicinamento, la moltiplicazione…
G.B.: Il passato che diventa una replica, una copia…

R.F.: E invece dove state cercando di andare?
F.R.: Ora siamo arrivati a parlare di Monstrum…
A.F.: …che è il nostro secondo frammento…
R.F.: Quindi Nil Admirari non è il nome del progetto, ma del primo frammento?
A.F.: Abbiamo deciso che Nil Admirari è sia il progetto che il primo studio, anche perché è un frammento che contiene un po’ tutti i nodi sui quali vogliamo lavorare: c’è una realtà di noi, quattro giovani, che si preparano per il loro presente, lo aspettano, e invece vengono sopraffatti da oggetti e storie del passato… anzi, vere e proprie scorie, che non sanno come gestire. E alla fine scompaiono, lasciando solo questo agglomerato di oggetti ed effetti che rimangono con lo spettatore.
Poi abbiamo deciso, più per il lavoro che vogliamo fare che con un’idea di marketing, di presentare in altre due tappe degli elementi separati: in uno, Monstrum, c’è l’apparizione di un passato inventato e ingombrante, con tutte le sue manifestazioni di anacronismo, di sincronia, di stranezza; e nell’altro, Tabula rasa, rimaniamo soli con la nostra realtà di vuoto, di ricerca di qualcosa, di un appiglio, di una concretezza che – mancando queste illusioni, queste chiacchiere del passato, questi elettrodomestici, questi sogni che riempiono invece gli altri due studi – vogliamo scoprire dove può portare.
G.B.: E poi ci siamo tenuti sempre, con questa tipologia del frammento, la possibilità di ricombinarli: sappiamo bene che Monstrum arriva a un certo momento di Nil Admirari, del primo frammento…
F.R.: Bisogna esaurire delle idee, così poi possiamo farne a meno. Questo è il metodo di creazione. La possibilità di poter presentare i due studi slegati ci dà l’opportunità di mettere in campo delle cose e vedere se funzionano, sperimentare e scoprire, tenere o lasciare…
A.F.: E in una combinatoria finale presenteremo – non si sa ancora dove e quando – Nil Admirari completo.

R.F.: Ma se il processo di lavoro è collettivo, siete tutti in scena, com’è possibile mantenere uno sguardo sull’andamento del lavoro?
F.R.
: È successo che qualcuno venga a vederci, ma già quando siamo a un livello da farci vedere. Chiaramente abbiamo la videocamera…
G.B.: Che usiamo però poco… E anche qui, solo quando abbiamo già tante cose montate.
F.R.: Quando abbiamo cose che secondo noi funzionano già. Abbiamo comunque dei momenti in cui uno si può tirare fuori e osservare l’altro e dire, digerire… Ah, scusate: dirigere. E questa comunque è una forma ancora un po’ caotica…
A.F.: …da perfezionare.
G.B.: La cosa importante da dire è che ci piace confrontarci.
A.F.: Infatti, abbiamo diverse cose in mente per migliorare e perfezionare questa forma di lavoro collettivo da sottoporre a un pensiero o a una “digestione” esterna. Una che ci piacerebbe molto e che abbiamo vorremmo inziare a provare è quella di intraprendere delle collaborazioni anche brevi in cui enti o gruppi teatrali ci offrono non solo lo spazio ma anche uno sguardo. Perché è molto interessante un contatto tra le compagnie nel momento in cui stai lavorando in modo completamente aperto, anche fragile…
F.R.: È una cosa che manca un po’ nell’ambito teatrale, mentre nella danza c’è.
A.F.: Ci sono molti gruppi, anche che sono stati qui, con cui ci piacerebbe avere questo tipo di scambio e di contatto. Ora cominceremo con Kinkaleri, che è un gruppo che ha una storia e…
F.R.: …una cifra estetica che…
G.B.: …che sentiamo abbastanza vicina…
F.R.: Come l’interesse verso i materiali, che per noi ha un ruolo molto importante: la plastica, questo grigio molto presente…
A.F.: E poi l’agire in scena una partitura visiva degli oggetti, in cui c’è una drammaturgia fra un oggetto e l’altro e un percorso visivo, una specie di mappa…
F.R.: Le tracce che vengono lasciate…
A.F.: E, a pensarci bene, è questa l’opportunità di OperaEstate: uno spazio che quasi naturalmente, senza neanche che l’avessimo pensato, offre la possibilità di uno scambio abbastanza continuo fra artisti: quest’anno Chiara Bersani e Sara Vilardo, qui con un primo studio, è bello poterci parlare… O con il gruppo foscarini:nardin:d’agostin…

Roberta Ferraresi / Simone Nebbia

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