Riccione è sempre la stessa, Viale Dante delle vetrine, il canale con le barche a galleggiare assopite e a dividere il silenzio dal clamore, il mare a pochi passi oltre la profondità degli stabilimenti, Viale Ceccarini e la leggenda – mai capito quanto vera – degli abitanti che ne lustrano ogni sera lo storico corso. Chissà s’era già la stessa di oggi, allora, quando 51 anni fa ci fu la prima edizione del Premio Riccione per la drammaturgia, di certo c’era fin dal 1929 il Grand Hotel riaperto oggi per l’occasione, con i suoi sfarzi interni, i soffitti di cassettoni intarsiati, i lampadari dei grandi saloni, il suo giardino rilassato che poggia sul mare, il suo sapore d’antico che il moderno è capace di rinnovare. Proprio nel suo giardino esterno s’è svolta la cerimonia di premiazione di questa edizione 2011, la prima del nuovo direttore Simone Bruscia ideatore di un restyling di spirito davvero azzeccato in termini sia grafici che strutturali, che ha visto premiare Il Guaritore di Michele Santeramo e La casa di carta di Lorenzo Piccolo nella categoria “Tondelli” under 30.
Tutto inizia poco fuori, di fronte il cancello inferriato ancora chiuso e affollato di persone, per la grande adesione di chi forse vive l’unicità dell’evento che fa di Riccione un centro propulsivo del teatro italiano (anche auspicando che pian piano si cominci a parlare qui di drammaturgia della ricerca contemporanea); ci sono i finalisti ansiosi, qualcuno maschera con difficoltà ma grande esperienza, altri spariscono dallo sguardo, quando arriva la giuria (da Gassman a Gifuni, poi Paravidino, Longhi, Bergamasco, Ragonese, De Capitani e il presidente Orsini) ci si accorge che nulla era deciso fino a quel momento e la suspance sale ancora di più. Con Saverio La Ruina, che di premi ai suoi testi ne ha avuti in questi anni (Dissonorata e La Borto premiati con il Premio Ubu), si fa scorrere il tempo fra una “birra leggera” e qualche passo sul corso, il suo Italianesi è in questa finale ma già in versione rinnovata si sta preparando al debutto romano dell’India in novembre (leggi l’articolo). Gli altri dispersi nella folla, in attesa di entrare come tutti gli invitati, per sconfiggere l’ansia cercando di sentirsi proprio come gli altri, loro che si stanno giocando la vittoria. Vitaliano Trevisan nessuno l’ha visto, soltanto Saverio giura di averlo incontrato al bar e averlo riconosciuto soltanto dopo, ma di fatto nessuno lo vede. Più in là, Michele Santeramo. Il suo Guaritore mi capitò di leggerlo nei mesi scorsi, me l’aveva mandato per una consonanza che stiamo sentendo in questi tempi difficili in cui l’umano si cerca come un riparo per la pioggia, mi dichiarò che l’aveva scritto per “questa continua sensazione di dover partecipare a mettere le cose a posto”, intendendo l’azione generata dall’urgenza, in un paese in cui si dipingono scenari catastrofici spetta forse al teatro, nella misura artigianale che il suo ultimo lavoro (visto a Short Theatre pochi giorni prima, Il sogno degli artigiani) articola con precisione, tornare a “ricucire le storie addosso alle persone”, intervenire, dare un segno piccolo, “Minimo” come il Teatro della sua compagnia, in grado di nuova e rafforzata coscienza.
La platea seduta di fronte alla bianca perlacea parete del palazzo in ristrutturazione, la platea che siede di fronte una parete come aspettasse un nuovo Pirandello a buttarla giù, la platea si lascia cullare dalle visioni che su quel palazzo si alternano, immagini di tanti anni su una struttura che gli anni li porta senza cederne uno, da Calvino a Quadri, passando per Tondelli; quando si fa sera e cala il buio lì di fronte, si spengono i clamori e nel silenzio rinnova il rito ogni volta compitato: la parete negli occhi, la maestosità se ci guardo attraverso, la vita dentro e fuori l’esperienza, l’opera di un Guaritore oltre il maleficio dello scetticismo: che si restauri in fretta e guarisca, allora, nelle parole e nella scena, questo Grand Hotel Teatro.
Simone Nebbia