Incontriamo Marco Valerio Amico, per un’intervista, nel secondo giorno di Ipercorpo. Gruppo nanou è qui da ieri con Sport, la loro ultima creazione. Ma la conversazione, in verità, prende questa forma pubblica da un incontro nato già il giorno prima e che è destinato a procedere anche oltre l’intervista. In uno dei “salottini” allestiti nel corpo centrale del Deposito ATR di Forlì, fra le luci di un aperitivo e il rumore bianco di una tv, si parla di corpo e di spazio, di politica culturale e di umanità, di invenzione di una forma di resistenza capace di rigenerare gesti e cultura.
La prima questione è sull’incontro fra il vostro lavoro e questo spazio “speciale”: cosa accade quando il “corpo nello spazio” di Sport viene trasferito in un luogo altro, che, per inciso, non è propriamente uno spazio teatrale?
Noi siamo qui con Sport, un progetto che ha un margine di adattabilità e riscrittura, a seconda dello spazio, molto particolare. È stato ragionato fin dall’inizio come una scrittura mobile, che possa anzi sfruttare il più possibile il luogo in cui si ritrova – a partire da una galleria di 800 metri, un palcoscenico di 10 x 10 o una situazione come questa di Ipercorpo, con delle caratteristiche particolari. Non si tratta di una struttura teatrale chiusa che, per eseguirsi, deve ricostruire un habitat predestinato e predeterminato. In questa dimensione, occorre calcolare delle variabili di intenti e una serie di incognite che implicano una gran mole di lavoro nello studio del luogo, dalle fotografie ai sopralluoghi che occorrono per capire come ricreare l’habitat aderente al progetto.
Secondo me, questo luogo di Ipercorpo, in un certo senso aiuta addirittura il progetto, perché riesce a dargli come uno smalto di spiazzamento in più. Normalmente noi portiamo in scena un corpo “artefatto”, cioè fissato al millimetro, che cerca di sintetizzare e anzi al contempo restituisce un pensiero nella sua carnalità; in particolare in questo progetto, con il corpo atletico messo in una situazione teatrale, il tentativo è quello di creare dei piani di percezione della concentrazione dell’atleta più che dell’esercizio atletico. Il fatto che ci sia un luogo non naturale – o, meglio, un luogo terribilmente naturale come un hangar, un capannone – permette di creare un limite ancora più sottile, sempre più indefinito fra quello che è l’esercizio o l’allenamento e lo spettacolo, nella verità di quel corpo che compie un’azione necessaria perché altrimenti se non la compiesse Rhuena (R.Bracci, la performer, ndr) cadrebbe e si romperebbe il collo… E questa è l’indagine del lavoro: la danza che non ha più il suo disegno, il suo gesto, nella figura che vuole costruire, ma la figura si determina per una necessità di esecuzione, in un luogo che è già di per sé costruito su una necessità di pragmaticità. Per cui quella frattura che in un ambiente teatrale – con quintatura nera, illuminotecnica di un certo tipo… – astrae l’azione, qui sborda, sbava, sfuma un limite che è molto interessante se si riesce ad afferrare, a far percepire.
In diverse città assistiamo a dei processi di rivalutazione degli spazi urbani che vanno nella direzione di Ipercorpo, quella di far rivivere un ambiente attraverso il gesto artistico, che qui assume un valore decisamente ulteriore. Per noi la necessità di interventi di questo tipo è evidente, mentre a volte l’istituzione e la politica culturale non la percepiscono con la stessa chiarezza. Per quale motivo, secondo te, l’informazione che la cultura sia per certi luoghi il volano di una rinascita non giunge a chi è preposto all’ascolto?
La settimana scorsa ero al Festival Ammutinamenti e il professor Pontremoli, in un suo intervento, ha segnato come il proprio interesse verso la danza contemporanea abbia a che fare con la sua dimensione di “gesto che rigenera un gesto”. Ed è lì che scatta qualcosa, mentre ci annoiamo se il gesto non è capace di rigenerare un’altra azione, se è fine a se stesso è mortale.
Secondo me, iniziative culturali di questo tipo – anche Ipercorpo a Roma quando nacque o alcuni eventi di Fanny & Alexander a Ravenna – hanno generato cultura perché sono state capaci di propagare poi cultura. Non hanno semplicemente creato un evento fine a se stesso, ma una trasmissione di pensiero che si perpetua tuttora. Penso che tutte le compagnie che sono passate da Ipercorpo, dal Rialto Santambrogio quand’era aperto, dall’Angelo Mai – situazioni che nascono per rigenerare e creano ulteriormente forza – si portano ancora dietro quell’esperienza e appena c’è l’occasione di partecipare si auto-coinvolgono, anche uscendo dalle logiche di mercato: è chiaro che siamo tutti qua a sostegno di questa situazione. E non perché ci sia un cachet, per quanto ci sia e ci sia tutto lo sforzo perché ci sia, con un’onestà di base, da parte di Ipercorpo, che è sacrosanta. In questo momento si pensa che la cultura sia unicamente un’occasione che richiama delle persone che consumano, per un certo periodo, un istante di evento; si disattende, invece, il fatto che queste persone rigenerino continuamente degli eventi e un pensiero.
Quand’è nato Ipercorpo, nel 2006, ci chiamò Luca Brinchi di Santasangre e noi andammo al Kollatino Underground. Ci proposero un progetto con un cachet minimo garantito per quattro date di spettacolo, nell’idea di generare e dare inizio a un luogo culturale romano; io ho trovato immediatamente rispetto e un’idea forte, che era anche quella di mischiare la musica con la cultura della performance, che poi ci portò una visibilità immediata enorme. Ma quel che trovai, soprattutto, fu un sodalizio nel pensare delle strategie per far uscire un’attività performativa che in quel momento – nel 2005, 2006 – sembrava sotterranea e che invece è stata dirompente. Tutto quello che si è generato da allora in avanti, per quanto riguarda la storia della nostra compagnia è veramente dovuto a quell’istante, a quella scelta che fu di ritrovarsi in amicizia; la stessa amicizia che c’è con Città di Ebla così forte e salda è nata proprio in quel momento di riscrittura e di rigenerazione di cultura.
Cos’è per te Ipercorpo?
Ipercorpo è stato per me un pensiero che in questi anni si è protratto nel tempo. Posso dirlo solo da un punto di vista personale… Ipercorpo per me è casa. Per quanto sia un festival, l’attenzione che ho sempre visto sia da parte dei primi organizzatori, i Santasangre, che da Città di Ebla, si trova nella convinzione di voler creare un ambiente intimo e accogliente. C’è una grande attenzione rispetto all’habitat, al luogo, alla possibilità di potersi parlare in maniera serena. E in questo secondo me si genera cultura: nel creare delle condizioni aperte che possano svolgersi poi in maniera anarchica, nel senso che non sono predeterminate e predette attraverso appuntamenti, ma nel creare delle condizioni perché possano accadere degli incontri. Questo è per me Ipercorpo: un luogo che ha un tentativo di scrivere e riscrivere un habitat, con una grande, grandissima attenzione a chi lo attraversa, sia dal punto di vista del pubblico che degli artisti.
Roberta Ferraresi, Simone Nebbia, Carlotta Tringali
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin