Ancor più che memorizzare e ricordare, se c’è una cosa davvero difficile è dimenticare. Se sei abituato al teatro, avvicinarsi alla danza non è semplice: per quanto contemporaneo pretenda di essere, il primo ha un “lessico famigliare” che i tuoi sensi accolgono con maggiore immediatezza. E una volta che l’hanno appreso, quel lessico si fa invadente, pretende d’essere l’unica lingua, somiglia a quei maestri di scuola di una volta che bastonavano le nocche dei mancini perché la sinistra era considerata la mano del diavolo.
Ecco. Per la maggior parte di noi, viziati dal troppo teatro, dare voce alla danza diventa un’ardua impresa, da compiere a suon di bacchettate e con lo scopo di diventare davvero ambidestri. Ché in tutta questa carenza di spazi, è proprio la danza a farne le spese più di tutti gli altri. Tempo fa, in una conversazione con Alessandra Sini (Sistemi dinamici altamente instabili) riflettevamo su come il sistema festival sia da un lato un parco protetto, in cui certe espressività trovano finalmente risorse e sincronie giuste per agire, dall’altro rappresenti una triste opportunità di ghettizzarsi. Se la maggior parte dei festival (di danza o teatro che siano) finiscono per circondare con spesse mura di esclusività un pubblico stesso, che non ammette ricambi, alcuni – come in questo caso Short Theatre – hanno il pregio di creare uno spazio davvero ibrido, in cui le due discipline, unite poi alla forma performance, si lambiscono i margini in uno scambio reale. E allora ti capita di uscire da una conferenza spettacolo ad alto tasso di intellettualità brechtiana e assistere a una performance che è puro corpo. O imbatterti in una creatura davvero altra, come uno spettacolo di Aldes, l’ensemble diretto da Roberto Castello, che a Short 2011 ha portato una creazione site-specific, Macello, e i primi due movimenti del nuovo progetto Carne Trita.
Non si tratta semplicemente di una compagnia, la struttura è più simile al collettivo, un porto espressivo dove attraccano diversi artisti della coreografia e della nuova danza, ad oggi Ambra Senatore, Stefano Questorio, Silvia Gribaudi, Silvia Alfei, Francesca Foscarini, Giuliana Urcioli e Chiara Frigo.
Entrambi i lavori presentati al MACRO evidenziano con grande determinazione la cifra coreografica di Castello, che qui compie uno studio accurato della gestualità umana, osservata nel momento stesso in cui si fa specchio di uno stato d’animo interiore. Dove ora c’è il MACRO prima c’era il Mattatoio comunale. Macello, definito come concerto per voce solista, coro e macchina del fango, si svolge nei Rimessini, in pratica l’area in cui le bestie venivano nutrite e poi raccolte in gruppi prima della mattanza. Forse ingannato dal titolo, il pubblico assiste a questa performance condividendo la tensione di chi si aspetta, da un momento all’altro, qualcosa di cruento. E qualcosa in effetti accade. Mentre da un lato, controllando mixer ed effetti, la voce solista esplora sopraffine modulazioni di suono e canto, la presentazione dei tipi umani avviene attraverso un continuo effetto rallenty sulle loro espressioni, che commentano degli altri i movimenti, di se stessi le sensazioni. Fino a una serie di fermo immagine quasi calligrafici, in cui la sfida è individuare quale tendine stia più fermo. In una performance a cui per potenza e rigore basterebbe il silenzio, irrompe, straniante e improvvisa, la parola. La cadenza dialettale, unita all’urgenza che ciascun fantoccio (perché di personaggi non si può parlare) prova nel raccontare, creano una babele di inflessioni e onomatopee che regredisce velocemente fino a una lingua pre-logica, nuovo ingranaggio che, dopo un tentato pellegrinaggio dei performer in mezzo al pubblico, torna a incepparsi in un ultimo rallentamento, fino a una nuova immobilità. Mentre il carillon di corpi si spegne lentamente, da dietro il muro di fondo affiora la prima parabola di fango. Inesorabili, copiosi getti insudiciano la macedonia umana, creando un effetto al contempo grottesco e terribile.
Cambia il luogo ma non gli interpreti; cambia il registro ma non la cifra stilistica. Carne Trita presenta qui i primi due movimenti. Nonostante la forma studio, il ritmo composto in scena da Castello è quasi sempre perfettamente calibrato. Sopravvive la ricerca sul fermo immagine e sulla gestualità a rallentatore, ma stavolta il funzionamento automatico dei movimenti viene declinato sul rapporto azione-reazione tra i vari interpreti. Divertente, originale e di grande puntualità è la ricerca di un nuovo modo per esplorare il vocabolario espressivo dei tipi umani e dei luoghi comuni che li rendono tali. La sperimentazione vocale è davvero il punto di forza di questo lavoro, quello che va oltre la “semplice” tecnica e si abbandona all’ascolto, un ottimo modo per fare dello spettatore il vertice in cui chiudere il triangolo. Peccato per qualche indugio e compiacenza, che da un lato fanno esplodere la pura danza anche quando non sarebbe necessaria, dall’altro portano a una forzatura sulla durata laddove il ritmo aveva invece reso evidente l’opportunità di un finale fluido. Tuttavia, trattandosi di un lavoro ancora in progress, in scena abbonda senz’altro il materiale (di talento e studio) in grado di sciogliere questi piccoli nodi.
Intanto noi ci godiamo una lezione in più, per imparare a dimenticare quel vizio che ci fa scrivere con una sola mano.
Sergio Lo Gatto