In Rewind Antonio Tagliarini e Daria Deflorian guardano da dietro a un laptop il filmato dello storico spettacolo Café Müller di Pina Bausch (1978); un microfono puntato sul computer permette al pubblico di ascoltare. Il racconto del capolavoro è però interrotto dal vissuto dei due artisti.
Questa conversazione è nata spontaneamente in un wine bar di Andria subito dopo lo spettacolo di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, Rewind, in un momento nel quale sentivamo la necessità di confrontarci “a caldo” sul lavoro messo in scena al Festival Castel Dei Mondi 2011 nel cortile del Palazzo Ducale. Il profumato vino della Puglia ha fatto il resto. Il registratore è sempre in tasca.
Si consiglia la degustazione con leggerezza rinunciando alla ricerca di illuminazioni critiche, lasciandosi invece andare all’intuizione notturna ed etilica dell’attimo.
Da accompagnare con un corposo Salice Salentino.
Andrea: Questo è uno spettacolo che ti continua nella testa dopo, subito nel momento in cui ti alzi dal tuo posto in platea, anzi succede già durante la performance: nell’immediato puoi annoiarti, ma poi ti tornano delle cose, le capisci, le afferri e allora sei anche tu costretto a fare un rewind, a tornare indietro appunto. Ho trovato molto interessante proprio questa relazione tra il racconto dello spettacolo della Bausch – e dunque la grande storia dell’Arte e della Danza – e i loro ricordi. Sono dei momenti di rewind anche quelli, ovvero i ricordi e la loro infanzia che “tornano” come torna Café Müller.
Carlotta: Mi ha ricordato molto Jérôme Bel, lui riesce a destrutturare tutto ciò che ha una grande storia alle spalle, inserendoci a volte il vissuto personale.
A: È vero. Nella stessa direzione è la scelta di Tagliarini e Deflorian di non proiettare il video dello spettacolo. Potrebbero proiettarlo, ma sarebbe un banalissimo errore; utilizzano invece i segni del teatro, anzi del racconto, per far rivivere frammenti di Café Müller.
C: Certo, lo spettacolo è molto concettuale, non puoi proiettare il video, devono raccontare, il gioco è proprio quello. Anche per questo forse va un po’ snellito.
A: Ma ormai è uno spettacolo che gira da diversi anni… Più che altro il problema rispetto a una fruibilità “popolare”, alla quale fortunatamente il lavoro è stato sottoposto stasera, è relativo allo spazio. Probabilmente è uno spettacolo che all’aperto incontra alcune difficoltà.
C: Perché troppo influenzato da quello che succede intorno?
A: Non solo, più che altro ha bisogno di un contatto con una platea meno numerosa e più raccolta, proprio perché si articola anche con i silenzi. Ci sono quelle due o tre pause tra i dialoghi e l’ascolto dell’audio di Café Müller in cui Daria Deflorian si dirige verso il proscenio e fa per parlare, vorrebbe parlare, ma non ci riesce, ecco quelli sono attimi che devono essere calibratissimi. Se c’è qualcosa nella sala che impedisce il silenzio diventa un problema.
C: Sono d’accordo. Anche le parti in cui eseguono queste figure plastiche con le sedie, lì ci vuole una certa concentrazione. Non è solo una citazione delle decine di sedie di Café Müller, loro le utilizzano per ricreare dei momenti altri. Nasce una sorta di magia per la quale tu non vedi più gli attori che collocano le sedie, non vedi più i loro movimenti, gli oggetti si muovono quasi da soli, si crea un momento fortemente estetico che poi viene riportato alla quotidianità del racconto.
A: Uno dei tuoi primi commenti all’uscita era relativo all’intermezzo comico…
C: Sì, capisco la volontà di cambiare significato all’oggetto “sedia”, un oggetto che può essere pieno di poetica, se utilizzato quasi fosse un danzatore o parte di una costruzione visiva e allo stesso tempo visto nel suo uso comune; ma dato che il lavoro è molto concettuale e pieno di rimandi a qualcos’altro, inserire in quel momento l’episodio dei pazienti nella sala d’attesa del dottore ti fa uscire ancora più fuori dal discorso.
A: Tu lo vedi perciò quasi come uno strappo nella concettualità, che porta a un pezzo da cabaret poco utile al resto dello spettacolo?
C: Sì perché l’utilizzo comune della sedia lo hanno già mostrato all’inizio; certo può essere divertente, ma non riesco a riallacciarlo al racconto dello spettacolo di Pina Bausch (Café Müller)
A: È un problema di “fruibilità”, questa è molto legata alla concettualità del lavoro. Non può non interessare come operazione, proprio perché non si soddisfa in quell’ora di performance, lo spettacolo a mio avviso sta continuando proprio adesso nei nostri discorsi.
C: Concettuale o meno, non guarderò più una sedia con gli stessi occhi.
Andrea Pocosgnich e Carlotta Tringali
Leggi tutti gli articoli sul Festival Castel dei Mondi 2011
Leggi anche Rewind: Tagliarini, Deflorian e l’inganno della memoria di Simone Nebbia
Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin