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Codice Ivan – didascalie dell’infelicità

foto Laura Marinelli per Centrale Fies

Bisogna dirlo subito: al suo nuovo spettacolo, dal titolo GMGS_What the hell is happiness? Codice Ivan punta veramente in alto. Una domanda, quella posta dalla compagnia che due anni fa si aggiudicò il Premio Scenario, che prevede una chiara impossibilità di risoluzione e un agglomerato, quanto mai indagato, di luoghi comuni, frasi fatte e sdolcinata retorica. Che diavolo è la felicità? Come indagare questo fine/motore di ogni azione umana? Come bisogna agire? Come bisogna vivere? Non c’è bisogno di troppo ragionare: la risposta è superflua esattamente quanto è superflua la domanda, ancor di più, se posta in maniera ripetitiva sulla scena teatrale. Ed è questo l’esatto motivo per cui Codice Ivan sta lì, a porre i suoi preziosissimi quesiti in una cantilena generazionale pulsante una solitudine assoluta.

I meccanismi che muovono What the hell is happiness? non sono dissimili da quelli che avevano animato Pink me and the Roses: se, al suo debutto, la compagnia raccontava in maniera ripetitiva una celebre favola di Esopo stratificando e decostruendo segni e significati, costruendo e distruggendo universi di senso, citando e disarticolando buona parte delle pratiche artistiche degli anni Novanta in perfetto stile postmoderno, lo spettacolo presentato durante il festival Short Theatre sembra perpetuare questa modalità di espressione artistica. Nucleo di What the hell is happiness? è la favola di Adamo ed Eva, la cacciata dal paradiso e le sue conosciute conseguenze. In una scena completamente spoglia, Benno Steinegger (coinvolto recentemente anche nel progetto Syrma Antigónes di Motus) va e viene introducendo cartelloni sui quali scritte con caratteri cubitali, realizzate a mano, raccontano scherzosamente l’evoluzione umana. “Un tempo ero una scimmia”, si legge sul primo manifesto, mentre, nella penombra, la performer Anna Destefanis appare con una maschera naïf raffigurante l’animale da cui si è evoluta la specie umana. La scimmia, libera e ghiotta di banane, un giorno inizia a mangiare mele, decide di diventare un uomo, una donna, quindi di perdere i peli, di lottare e amare. Le banane non le bastano più.

La stessa storia è raccontata, come una lezioncina per bambini in lingua inglese, da Destefanis che, piegata per terra, realizza dei disegni stilizzati con gessetto ripresi da una videocamera digitale e proiettati sullo sfondo della scena. Allora ecco l’umano, il mondo non perfetto dispiegarsi nella sua più intima natura: l’inutilità. Un “inutile” costruito da polvere e linee di gesso che, come in un cartone animato, creano e disfano disegni, figure e schemi per spiegare la banalità dell’agire umano (per vivere hai bisogno di una maglietta e di molta frutta; per conservare la frutta ti servirà un frigo e per custodire il frigo una casa. Per avere una casa dovrai trovare un lavoro, quindi ti servirà una maglietta più bella… E così via). I cartelloni portati in scena da Benno Steinegger, riempiti di domande e frasi didascaliche (La felicità è libertà, la libertà mi rende vuoto, il vuoto mi rende infelice, l’infelicità può essere preziosa?) appaiono come stati di Facebook, post-it abbandonati su una superficie totalmente epidermica, piatta, superficiale. La videocamera digitale riprende disegni, figure ritagliate da fotoromanzi, prodotti di consumo e merci, medicinali, case lussuose pronte a crollare in imminenti terremoti.

Tutto qui il gioco messo in scena da Codice Ivan: costruire e decostruire, lasciar crollare ogni orizzonte di senso in una commistione di pratiche e linguaggi che assorbe, trita e rigurgita postmoderne riflessioni sul mezzo teatrale, slang da social network (internet sarà nel finale l’unico medium attraverso il quale rompere la propria solitudine) ed estetiche giovanilistiche da MTV generation.
Non c’è definizione per la tanto agognata felicità: nel momento in cui ci si impone di affrontare l’argomento non rimane che deviarlo, renderlo finto mascherandosi dietro la più pura ingenuità. Codice Ivan non denuncia, non suddivide tra bene e male, tra giusto e ingiusto, non cerca né un lirismo patetico atto a mostrare l’odierna condizione umana, né un’ironia cinica volta a provocare ilarità, piuttosto dichiara sfrontatamente l’assoluta finzione sotto cui, silente e immobile, attende l’abisso del vuoto.
Solo così, sulla scena, ogni elemento può trovare il suo posto in una tenerezza capace di commuovere, di catturare emotivamente lo spettatore, di giocarci insieme, quando tutto ciò che rimane da fare è prendersi in giro o desiderare, cantando al karaoke La Isla Bonita di Madonna, il ritorno su un’isola tropicale selvaggia e libera.

Matteo Antonaci

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