Il tempo perduto ha sempre quella qualità intimamente percepibile di evocazione, si avvale dei sensi che ne rintracciano la pensosa attiguità col presente, riportandone in luce sensazioni nascoste e che si credevano dimenticate, nella densa melassa della memoria. Non è un caso dunque che proprio attraverso le presenze – le sagome fuggevoli di vite odierne che ombreggiano vite passate – Alessandro Serra e Teatropersona compongano questo debutto di Aure, immaginato seguendo la linea proustiana di Alla ricerca del tempo perduto, ricerca letteraria tra i simboli più netti dell’intero Novecento.
Il loro intento è dunque intessere l’evocazione nello spazio che ad oggi pertiene, esprimendo quanto questa appartenga a chi ricorda, non al ricordo stesso, componendo quindi le presenze come marionette inanimate che tuttavia, d’improvviso, iniziano a seguire un percorso autonomo. Lo spazio scenico è invaso da una suggestione pittorica che rende la riconoscibilità della compagnia, quell’atmosfera di eleganza stilistica che traccia linee spesse e di colore denso, impenetrabile, tenendo fede a una capacità di comporre immagini cariche di consapevolezza significante; da tre aperture bianche nel nero diffuso, porte di una percezione sbiadita eppure viva, entrano ed escono le presenze, i corpi che restano installati in quel ricordo, almeno quanto il ricordo è in loro installato.
Gli elementi migliori del lavoro sono senza dubbio legati alla qualità che il tocco di Serra sa aspergere per la scena: quella luce sensibile ai movimenti, che ne guida e ne segue ogni piccolo gesto creandone l’atmosfera poetica, poi la scelta di creare uno spazio geometrico da abitare delicatamente con certe asciutte simmetrie in cui il presente ricerca se stesso passato e ne ritrova i tratti di un’emozione fascinata. Di rilievo anche la qualità dei performer che curano con precisione la loro occupazione spaziale e i movimenti: Chiara Michelini, Francesco Pennacchia e Valentina Salerno riducono in piccole e grandi tensioni corporali lo stato emotivo della vibrazione memoriale. Nonostante tuttavia questa ottima stoffa, lascia dubbi ed esitazioni al giudizio il mancato uso di queste qualità in via di sviluppo e costruzione di una linea drammaturgica che risulta un po’ debole, componendo immagini sì di valore ma chiuse nel loro proprio senso, con difficoltà a rintracciarne un senso di totalità. Ma lo spettacolo è notevole, il tocco eccellente e la direzione è quella che sta attestando questa compagnia fra le migliori del panorama italiano contemporaneo. Ne resta infine la suggestione: l’istante che spegne lo spettacolo, dopo tante illuminazioni vibrate l’ultima luce è come ricordo puro, l’ultima fiammella di una memoria perduta.
Simone Nebbia
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin