Le Officine Culturali assolvono alle seguenti funzioni:
* Svolgono attività nel territorio di uno o più comuni del Lazio (escluso quello di Roma), in aree carenti di servizi culturali;
* Operano in sedi quali centri culturali, scuole, strutture industriali dimesse, piccoli teatri di interesse locale, messe a disposizione da enti locali o da altri soggetti pubblici e privati;
* Operano secondo un piano di gestione fondato sul pareggio di bilancio, che utilizza il contributo pubblico come base per ulteriori introiti derivanti dalla prestazione di servizi;
* Operano con caratteristiche di quotidianità e continuità al servizio dell’area di riferimento, promuovendo le risorse e le esperienze del territorio.
Con queste parole la Regione Lazio promuove il fiore all’occhiello del proprio mandato culturale. Sono parole che potete trovare facilmente andando sul sito internet dell’istituzione regionale. Diciamolo francamente, è stato uno dei progetti concettualmente più interessanti degli ultimi anni: la messa a bando dei finanziamenti che associazioni culturali già operanti su territori “di frontiera” (oppure altre pronte ad insediarsi dove non vi è praticamente nulla) avrebbero potuto utilizzare per portare insomma quell’abitudine alla cultura con la quale gli stessi assessori e governatori si riempiono la bocca. E lo fanno, certo, lo fanno nonostante tutto. Eppure ho coniugato il verbo al condizionale, per definizione il modo che non teme d’essere smentito. Anzi tra pochi anni, quando piangeremo sulle macerie di questo paese, quella magica e melanconica concordanza di tempi con cui si raccontano i rimpianti sarà tornata definitivamente in forza nei nostri discorsi che, come fantasmi cechoviani, infesteranno il presente di congiuntivi al trapassato. Ma la costruzione è già d’obbligo. Le officine culturali funzionano. Creano una rete culturale di supporto e salvataggio nei confronti delle popolazioni di alcuni centri di provincia e lo fanno nonostante il taglio dei finanziamenti. Portano avanti i propri progetti nonostante molte di loro debbano ancora ricevere saldi e addirittura anticipi del 2010. Allora chiedetevi cosa sarebbero stati quei progetti se le associazioni e soggetti coinvolti avessero ricevuto la liquidità promessa in tempi ragionevoli. Teatro sociale, lavoro di educazione culturale con i detenuti, riqualificazione del territorio, riattivazione di aree culturalmente depresse, creazione di un indotto e di giovani professionalità intorno al “sistema spettacolo”. Tutto questo, che poi altro non è che il tentativo utopistico di ricomporre un tessuto sfaldato da anni di politiche folli nelle quali il pubblico ha delegato al grande privato l’appalto di quello che ruota attorno al termine “sociale”, rimanendo inerme e dunque colpevole testimone di una irreversibile sostituzione di valori. Immaginate insomma con quale difficoltà le officine culturali abbiano dovuto far attecchire i propri innesti, con quale cura abbiano dovuto innaffiare i semi del proprio lavoro in situazioni dove centri commerciali hanno ormai da tempo sostituito teatri, parchi e biblioteche come punti di aggregazione.
Eppure chi guida questa regione guardandosi allo specchio non vederebbe altro che i propri omologhi nazionali, ed ecco che il totale disinteresse mostrato dalla classe politica nazionale si riflette sui dirigenti regionali. Nell’epoca del federalismo all’italiana, del vacuo balletto sul mercato dei ministeri al nord, la politica balbetta di fronte alle esigenze culturali del paese e si “dimentica” di pagare chi sulle proprie spalle si carica il peso dell’arte e della cultura. Sempre più spesso sembra di assistere a un’eutanasia rimandata: gli artisti si radunano, “scioperano”, chiamano i media, picchettano sotto gli uffici pubblici come una qualunque minoranza non ascoltata, l’assessore di turno esce fuori dal proprio ufficio e promette i pagamenti dovuti. Si tratta di aspettare un altro po’, di stringere la cinghia per qualche settimana o mese. Ma poi il tempo passa e a quanto pare non c’è giustizia che tenga, lo Stato o una sua istituzione non può contrarre debiti con paesi e banche estere – che lo porterebbero a far la fine dell’Argentina nel 2001 -, ma a quanto pare può tranquillamente avere tra i propri creditori i cittadini.
Dopo un lungo percorso di sofferenza la lenta agonia può terminare di colpo, anche con un gesto improvviso del malato. Ecco allora che una delle officine culturali, il C.O.R.E. (Cordinamento Regionale Danza Contemporanea e Arti performative del Lazio) ha deciso di rinunciare al finanziamento per l’anno 2011 proprio per i ritardi rispetto ai pagamenti dell’anno precedente. In una lettera aperta il presidente dell’associazione Danila Blasi ha motivato le ragioni di una scelta così drastica che pone tutti noi di fronte a una riflessione: quanto ancora può resistere un sistema in cui artisti, compagnie teatrali e associazioni culturali sono costretti a indebitarsi con le banche in attesa che piovano da chissà quale cielo i soldi pubblici necessari a tirare avanti?
C’è un film tristemente emblematico sulla crisi di quello che era il più evoluto dei paesi sudamericani, Diario del saccheggio, di Fernando Ezequiel Solanas. Nel documentario il regista fa quello che le corti di giustizia non sono riuscite a fare: puntare il dito sui colpevoli, riconoscere i politici corrotti che per decenni hanno derubato il paese e lo hanno portato alla rovina. Forse è tempo che quel dito iniziamo a puntarlo anche noi, prima che sia troppo tardi.
Andrea Pocosgnich
leggi anche:
– La lettera con cui C.O.R.E. rinuncia ai finanziamenti 2011
– Pagamenti bloccati e futuro incerto: dopo la mobilitazione ecco le risposte della Regione Lazio