Una festa in casa, alcolici musica e festoni per una nottata straordinaria. Ma durante la festa nessuno pensa mai a quel che rimarrà dopo, nel salotto di tutti i giorni: quello ch’è stato il salotto della festa rimane un luogo deturpato dall’incauto attraversamento, dalla facile inclinazione alla baldoria. Così che nel silenzio spento di un giorno successivo, un gruppo di ricercatori in tenuta di alto rischio contaminazione e inquinamento dell’analisi, insomma intellettuali in scafandro, aziona i suoi rilevatori di vitalità in questa stanza della rivoluzione fallita, cui si riconosce per simboli e stralci d’emotività non più della messa in scena. Cosa ne è rimasto oggi? Una stanza con le bottiglie di birra mezze vuote, vecchi quadri polverosi di miti scaduti, alcuni nemmeno appesi e rimasti in terra, luci al neon intermittente che lampeggiano l’estraneità del luogo, un divano coperto da un telo per non rovinare il tessuto, come tentativo di salvaguardare l’uso del coraggio e restare bloccati ad ogni timore d’azione, un frigo semivuoto di cui non vediamo il contenuto, ma con chiarezza dimostra più cosa non c’è del contrario, disadorno contenitore del vuoto più che del pieno, un giradischi che suona l’Internazionale: ogni elemento stimola l’emotività fallita – sempre postuma – della memoria. Reperti. Di una dismissione dell’idea. Questo il quadro totale che battezza e apre questo Orazi e Curiazi – dramma didattico, di Bertolt Brecht del 1934, portato in scena da Fabrizio Arcuri per l’Accademia degli Artefatti.
L’intento di Arcuri è quello di far dialogare Brecht con la realtà contemporanea, traducendone l’intenzione dialettica più incline che mai a questi tempi disagiati. Dramma didattico è sottotitolo eloquente, ma come si affronta un’operazione simile senza cadere nel didattismo? Come ci si distingue dal rischio di confondere insegnamento e didascalia? Arcuri pone in atto un gioco di estremizzazione, sceglie il grottesco buffonesco per affondare nella caricatura del testo e di sé interprete, così da rivalutarne il senso della discussione, recuperare in un solo spazio d’analisi il senso del vero e quello del ridicolo; si tratta maggiormente della misura espressiva, in special modo attorale (otto in scena), che con finezza crea un cortocircuito fra quest’opera grottesca e il panorama tragico.
Successiva è la rappresentazione del conflitto fra i due popoli in lotta per il potere, frontale alla platea inscenano una sorta di gioco di società salottiero, due squadre contrapposte in fondo ognuna specchio dell’altra, senza vincitori e vinti, intercambiabili e buffe, arbitrate da un giudice in abiti tradizionali cinesi: insomma, cosa di diverso dalla politica partitica degli anni duemila? Ai lati della scena due schermi grigi fissi sull’assenza di segnale inducono a pensare che non ci sia più molto da vedere, che la partita fratricida si giochi fra uomini, quando ce ne siano, soltanto gli schermi di volta in volta lanciano parole del testo sfumare nel grigio diffuso, come piccoli segnali di un tacito ma continuo monitoraggio della tragedia. Di qui l’uso della videocamera che testimonia e quasi oltrepassa lo scontro, decretando maggiore forza all’esposizione in video che all’esposizione in battaglia.
Lo spettacolo ha una forza allegorica che si pone e affronta anche il rischio della perdita del senso concreto (chi vince? Qual’è il senso di questo scontro?). Sembrano più importanti del percorso l’avvio e l’approdo – pregio parabolico della sequenza drammaturgica ma difetto nei momenti dilatati di reiterazione infruttuosa e nella durata forse eccessiva, anche se in linea con l’integrità del testo – torna infatti alla fine la lavagna dell’inizio che della didattica è l’emblema, di fronte una classe di guerrieri schierati a imparare nuovamente lo scontro. Solo allora è chiara l’intenzione, nella voce fuori campo che dice nettamente, nell’integrazione drammaturgica di Magdalena Barile: “c’è un conflitto in atto e ridere è la nostra strategia”. E allora si rida, amaramente ma si rida per non perdere il senso e il senno nella tragedia, mentre al banco di quella scuola si finisce scheletri, spettatori di guerre al primo assalto già perdute.
Simone Nebbia
Complimenti, un articolo che trovo estremamente ben calibrato rispetto al tono dello spettacolo. Un tono che, se torno proprio concretamente ai momenti della mia fruizione, emerge come un tono di plateale provocazione, della serie: c’è una quantità di metri che devi percorrere per congiungere il tuo operare cognitivo con quanto hai visto, quanto è accaduto. Ed è in tal senso utile riconoscere allo spettacolo, come un suo pregio, un grado estremo di rapsodicità: come tante volte si è detto in passato con Sergio che era lì con noi all’India: “Ma hai visto l’ultimo spettacolo degli artefatti?” – “Si” – “Bello?” – “Boh, non lo so. Però sapessi che casino che hanno fatto, alla fine per terra era tutto zozzo, c’era gente che tirava le torte, gente che correva da una parte all’altra… un gran casino”. “BOH”, ovvero X metri che devo percorrere per com-prendere quel che è successo. Qualcosa di denso è accaduto, ma eravamo tutti talmente annichiliti dall’energia soverchiante da non ricordarci nulla, come quando ti raccontano troppe barzellette e, a fine serata, non te ne ricordi nemmeno una. Lo stesso dilemma che, spalmando in una generica apologia, soffriamo nella Contemporaneità: “acchiappare” il vortice del passato. La sensazione continua, quindi, che emerge nel tuo articolo dietro la locuzione-chiave di “forza allegorica”, è di una provocazione continua a percorrere uno spazio di comprensione, come fosse una corsa a ostacoli verso un appiglio, uno qualsiasi. Una provocazione che in alcuni momenti si potrebbe malignamente intendere come intellettuale, autoreferenziale, ma che ha il pregio di mantenere questa distanza che, come quando corteggi una donna altezzosa, ti spinge tanto più a tampinare quanto più ti fa sentire respinto.
Altrettanto interessante è la chiave di lettura della presenza dei video: tutto si gioca in un post-; la partita salottiera tra Orazi e Curiazi si colloca in questo momento post-festivo. Ma cos’è il mito degli Orazi e dei Curiazi se non uno dei tòpoi dell’acmé melodrammatico? L’apologo tragico per eccellenza, lo spartiacque tra privato dell’amore e pubblico della politica giace criogenizzato in un post- stravaccato, molle, permeabile, quasi irritante per leggerezza, per distrazione dei corpi. Ecco l’assenza di segnale che si staglia parallela a tutto quel che “accade”. Forse che quei criptici monitor sono le nuove quinte degli Artefatti, le colonne di un tempio in disfacimento, il rumore bianco che segue la festa, la domenica delle salme in cui tutti si ritrovano scollati dal magnifico mondo passato che si può andare a riconoscere soltanto dentro una tuta anti-contaminazione armati di pinze e sacchetti di plastica?
io lo spettacolo l’ho visto in prova (ho la netta sensazione di aver perso molto)
Chiaro è che come tanti spettacoli, ormai tutti, anche questo arriva al debutto con la sicurezza che il rodaggio lo arricchirà.
Io finite le prove, ero sconcertato da due cose:
1- non sapevo che consigli dare ad uno spettacolo che funzionava tanto bene
2- c’era stato un casino immenso eppure avevo capito tutto il testo, la storia era stata portata alla perfezione e avevo anche intuito che il testo era una palla immensa, ma nonostante questo io mi ero divertito dall’inizio alla fine.
veramente tanto di cappello a Fabrizio, Matteo, Pieraldo &Co
… G. Benedetti è sempre il più bravo ! …