A porte chiuse. Ma anche le finestre. Un tavolo enorme frontale e tre sedie, un leggio da banco, una fuga di lato quasi impercettibile, niente altro. La sensazione claustrale prende d’improvviso già nel rituale d’entrata in platea, già l’aria ferma blocca anche il respiro di chi assiste, c’è un senso di quiete magnifica cui non si può porre contrasto: l’aria è posata, senza ritorno al movimento, l’attraversamento è lieve come il solco leggero di un dito sulla stoffa. Siede un uomo che sembra estraneo ai sommovimenti del mondo, la sua figura esile e composta accoglie domande cadere da altri occhi, non accenna risposte: per lui la lettura di tre Sermoni Tedeschi, pronunciati dal predicatore domenicano Meister Eckhart (interpretato da Marcello Sambati). Agli altri posti siedono un uomo e una donna (Valentina Curatoli e Diego Sepe), i personaggi delle tre storie che incroceranno le parole del maestro, tre fasi di una vita insieme: l’incanto, l’amore, la maturità compassata del sentimento (scritte da Armando Pirozzi). Nel silenzio claustrale inizia Attraverso il furore, con la regia di Massimiliano Civica.
Il predicatore è di profilo, sul lato destro dello sguardo di platea. I due personaggi sono frontali, sull’altro versante. Un rapporto di antitesi li lega: la frontalità dei due che si cercano nell’assurdità confusa, spinti a cadere l’uno nell’altro, la loro resistenza all’inclinazione naturale, la necessità contrapposta alla regola, tutto questo è in contrasto alla nettezza delle parole del maestro, che dicono la quiete dello spirito, la maestosità della naturalità che è somiglianza con Dio. I due non si guardano mai negli occhi, e pure si promettono – chissà dove trovando sincerità – amore eterno. Il maestro soltanto una volta invece guarda la platea, quando pronuncia la parola che coinvolge “Noi tutti”, in cui si cela un’imposta di dovere, ma verso quel “Noi”sempre rivolto. Per tutto il tempo che rimane, invece, guarda verso i due di fronte che si cercano e gettano la scorza delle ritrosie per mondare la spirituale intimità.
A stimolare Civica in questa ricerca è la sensazione netta che uno dei drammi di quest’epoca contemporanea sia la perdita del sacro, cercando di indagarla attraverso il furore detonato dalla parola potente, che suona nel silenzio costruitole attorno; i discorsi del predicatore cercano di rintracciare abiezioni e convogliare speranze di redenzione, proprio attraverso l’ascolto di sé e delle parole che si è in grado di pronunciare, la ricerca di una quiete è attraverso sì il furore, ma giunge a compimento con l’accettazione di quella stessa quiete. Il rigore formale, il puntiglio all’essenzialità, fa di Civica un regista di qualità eccellente, la sua ricerca si dirige alla spoliazione del superfluo, lasciando così libera la materia di esistere sola. Il rischio che il regista sente di imporsi è però un’arma di difficile riduzione: l’attenzione di chi assiste è messa a dura prova dall’atmosfera e dal cadenzato ritmo liturgico, la ricerca di una connessione drammaturgica fra i sermoni del predicatore e la storia umana è affaticata, probabilmente sconfessata dall’altezza di complessità ch’è forse la conferma dello stimolo, movente del regista; la sacralità perduta incide sull’opportunità di restaurarne il carico spirituale, così che portarlo in scena è un atto coraggioso minato dal rischio di vanità, e dunque il rigore stilistico sconta anch’esso il rischio di farsi rigidità.
Simone Nebbia