È già quasi sera, quando Iaia Forte intona il suo omaggio a tre donne straordinarie, diverse per epoca e geografie, unite dalla parola significante e vera: Saffo, Dickinson, Morante, nella prima sera della sua voce è al verso contrario, dall’ombra alla pace, dalle tenebre alla luce, il viaggio della poesia. Inizia dalla diversità, questo Festival di Poesia di Castiglioncello, Ai margini del bosco, sul confine della naturalità la sottrazione del corpo di Mariangela Gualtieri e la carnalità di Iaia Forte restano in equilibrio su ciò che le disunisce e che insieme le accomuna: la Forte intona il suo Canto per scacciare le tenebre di torno, lo fa con voce ferma e fervide intonazioni, sceglie testi – dice lei – “per incantamenti suoi”, testi con un legame tutto femminile con l’alterità della condizione sentimentale, la coercizione degli amorosi sensi. In questa qualità del sentire il suono, lei attrice musicale e non psicologica come si definisce batte in sé stessa, il canto doloroso e muto dell’amore.
Ma è stato uno squarcio di sole tiepido al tramonto, ricavato in una ferita di nube, poco prima, a volermi innamorare. Esile il corpo di Mariangela Gualtieri sommessamente calata nella sua Bestia di gioia, ma esile non è la forza che quel corpo sprigiona, eretto a figurare la sudditanza dell’uomo alla natura, ma anche la sua discendenza. Dietro le sue spalle il sole si affacciava sopra il bosco che invece ondulava smarginato, oltre quel suo confine, in filari d’alberi e tonde colline di coltivi, ma troppo è stata quella voce, per non voler guardare – ad ogni suono – il cielo che la sovrastava.
Il suo di canto è un brillìo intenso di vocalità tra i cieli e le nubi, i boschi ed i fiori, cui voler domandare dell’uomo la naturalità perduta; nelle mani ha un taccuino nero, al posto del libro pubblicato il libro manoscritto, il suo tratto di grafia che afferma la trasmissione poetica, la sua formula medianica; e poi il fuoco, motore che anima il mondo, forza animosa che alimenta i già combusti sensi. Nella bellezza vibrante che fa germinare assieme il bene e il male, affratellati nel corpo del seme, è la necessità che l’uomo torni ad abitare il deserto con la sua azione, prima che ci colga la “nostalgia dell’umano”, prima di confondere la nostra essenza nelle strutture alterate dell’evoluzione, salvare “il poco e il niente” prima dell’assoluta dissoluzione nel tutto uniforme, l’annientamento degli istanti sommersi dalle ore, del filo d’erba sovrastato dalla famelica estensione di un prato, dell’uomo sovrastato dal concetto di umanità.
Le sue parole d’amore inarcano le curve del silenzio, s’inabissano nei pensieri ma innalzano l’invocazione più pura che uomo si permetta, scarna eppure musicale la voce come rivolo di fumo si slancia verso l’alto, si mescola al sole come fosse essa stessa rifrazione, del fuoco della poesia.
Pian piano quel sole, fra le nubi scompare.
La tenebra è scacciata.
Infin che ‘l ciel – questa volta – fu sovra noi richiuso.
Simone Nebbia
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