Il giorno della chiarezza. Ieri mi trovavo a ragionare attorno a questa occupazione del Teatro Valle, al suo quarto giorno, chiedendo a voce alta che prima di tutto si parlasse del Valle, il cui destino appare sempre di più come un ago della bilancia di straordinaria efficacia, come gli stessi occupanti dichiarano fin dall’inizio. Finalmente l’assemblea di ieri venerdì si è svolta ricercando proprio un ponte di raccordo fra la protesta e l’opportunità propositiva che ne segue. Ma ancor di più l’assemblea ha finalmente sgomberato il campo da un fraintendimento colossale: il confine fra gestione e autogestione. È stato cioè puntualizzato con forza che gli obiettivi erano e sono quelli di discutere progetto artistico e copertura economica per affrontarlo, partecipare come artisti e cioè utilizzatori finali delle decisioni politiche al nucleo che ne deciderà le sorti, ma non certo proporre una gestione alternativa e naif che si troverebbe a scontrare così tante difficoltà burocratiche oggettive da perdere in consistenza dell’azione. E ce n’era proprio bisogno, perché è stato quello il momento in cui chi era venuto qui per inscenare le proprie personali rimostranze al mondo intero, per sfogarsi di lavorare una volta ogni tre anni, per inchiodare l’arte da cui è escluso per motivi che non sta a me ora rintracciare, s’è prima alzato nella polvere, poi s’è posato e docilmente una ramazza l’ha accompagnato all’aria aperta. Qui si sta per discutere concretamente, questo resta un punto inequivocabile.
È Manuela Cherubini, come spesso in questi giorni, a porre nella discussione la frase cardine della riunione, frase che dice non riesce a passare per gli organi di stampa, bene, lo farò io: «Non siamo qui per il chi ma per il come», ed è opportuno ricordarlo, ma il chi è strettamente connaturato al come, dico a Manuela, poiché le energie prima di tutto economiche per attuare il come passano inevitabilmente per il chi. La necessità è dunque di monitorare soprattutto le mani che vanno a toccare le risorse e a spartirle tra le varie esigenze e richieste, perché l’arte questo lo sa bene: è l’uomo al centro di tutto, anche della burocrazia che s’è inventato, e sulla scelta delle risorse umane si gioca da sempre la politica: arte di governare gli Stati, dagli uomini composti e da pochi di loro esercitata.
Questo, dicevo, è il giorno di proposte concrete e ne arrivano: la salvaguardia del patrimonio di conoscenze tecniche e anche gestionali, quindi un occhio più attento alla formazione sia professionale che artistica, ridiscutere le categorie ministeriali che ancora sono ferme a mezzo secolo fa e non rappresentano più quest’epoca delle arti, l’attenzione al panorama internazionale che senza l’ETI non ha alcun referente italiano, poi l’apertura pomeridiana per studi e approfondimenti, l’obbligo di investire in una certa parte sulla drammaturgia italiana e su compagnie del territorio, in percentuale rispetto alla proposta artistica, un codice etico che renda questi sforzi coerenti, la ricerca di un interlocutore nel Teatro di Roma che del Valle quest’anno si occuperà.
Avrei potuto terminare l’articolo su questa rinnovata chiarezza, avrei fatto il mio dovere di cronista e critico, però un punto non mi tornava e ieri sera, altrove con un collega di carta stampata, la riflessione s’è fatta lampante e un altro fraintendimento palese: il Comune farà un bando e si chiede di diventare una commissione che ne vegli i criteri, l’assegnazione al TdR è temporanea, il Comune rassicura che questo teatro resterà pubblico, quindi si presume resti in orbita dello Stabile, cioè il luogo pubblico della cultura cittadina. Però attenzione: il Teatro di Roma è teatro comunale, ossia i suoi soldi sono direttamente del Campidoglio, non ha risorse sue proprie ma gestisce quelle messe a disposizione; quando ci sarà un bando, chi darà al Teatro di Roma i soldi per garantirsi la copertura economica e parteciparvi? Se indico un bando io posso partecipare con i miei stessi soldi? No signori, il bando sarà per esterni privati, il TdR è un interlocutore forse attivo ma illusorio, non c’è ad oggi soluzione e capisco ora di più che le promesse sono vane, non ci facciamo prendere in giro: gli sforzi di chi occupa sono encomiabili, straordinaria ne è la forza dal basso, ma questa è la fine che farà l’unico teatro nazionale della capitale di uno stato occidentale, il colpo mortale all’idea di cultura come bene comune a partecipazione collettiva: che dire, sarà questo uno dei festeggiamenti per i centocinquantanni più bui della storia d’Italia? Chiediamo allora un finanziamento per abbattere il Teatro Valle, arriveranno soldi a palate per la demolizione.
Simone Nebbia
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin