È dall’accoglienza che misuri l’intero soggiorno, ma non ci si può fermare lì. Prende per mano uno per uno gli spettatori, questa Quinta Edizione di Teatri di Vetro, li accompagna dal buio di una percezione non ancora esprimibile al buio della sala, dove percezione sarà.
Il buio è per i sessanta minuti di Asprakounelia di ErosAntEros, giovane compagnia ravennate che ha pensato bene di permettere la migliore percezione fin dal principio, dalla lettura del titolo di questo testo scritto nel 1991 da Philip Ridley (Killer Disney), per cui forse bastava dire Treno Fantasma. Il buio è la condizione naturale di uno spettatore, la sua incoscienza è disarticolata, immersa in una stagnante mancanza cui l’arte si pone di sopperire; vengono perciò disposti gli astanti uno per uno sulle poltrone, preparati al rito teatrale: promettono un forte sconvolgimento emotivo, ci dicono che in caso sentissimo una violenza eccessiva potremo chiedere di uscire, ci invitano a fare molta attenzione per chi ha difficoltà con le luci stroboscopiche che saranno terribili, ma i brividi restano tutti fuori: dal silenzio e dalle tenebre si articola un dialogo, poi monologo, poi un dialogo con una voce duplicata, lavorata, quindi ancora monologo, puntano tutto sull’esperienza sensoriale, sulla sonorità della voce e di un surround che avvolge di sinistre presenze invisibili, ma è tutto ampiamente già visto, questo buio qui è tutt’altro che feroce, l’orrore macabro è immobilizzato in un racconto fermo alla messa in campo di materiali non organizzati drammaturgicamente, frutto di suggestioni non modellate per una proposizione che sia teatrale.
Dubbioso su questo primo spettacolo, sono arrivato con la luce del giorno, esco da questo Ambra alla Garbatella per andare verso il Palladium, che attorno un po’ di buio è già sceso. Ma bisogna andare di corsa, si fa in tempo a scambiare appena due battute col fiatone prima di catapultarsi in sala: Amleto, Teatro del Lemming, che aspettavo da tempo perché sono una compagnia storica di Rovigo, “dal 1987” come per dirne la longevità, e come tale va considerata e valutata. E infatti è talmente storica che propongono una lettura di Amleto piuttosto vecchia, opaca e vaga di stile e di idee per affrontarne la complessità: l’accoglienza c’è anche qui, con le luci accese in sala gli attori offrono dolcetti e caramelle, vino e cioccolata, ma dovrebbero fare spettacolo e su questo invece qualcosa si inceppa, accade a mio avviso per l’eccesso di regia, la sensazione che siano tutti i dieci in campo bloccati in una posa che non li fa esplodere di senso, come invece un attore sa e deve fare, ma li lascia sagoma incapace di attraversare e innescare una delle tragedie fondanti il teatro e assieme il mondo. Insomma, se “c’è del marcio in Danimarca”, qualcosa è arrivato fino a Rovigo.
Dopo due spettacoli in teatro, è il momento di uscire in strada e vivere quell’esperienza di cui TDV è sempre stato protagonista: i Lotti, il teatro nei cortili della Garbatella. Dopo aver sbagliato strada un paio di volte, finalmente Claudio Angelini, Città di Ebla, la sua conferenza spettacolo su Pharmakos – migrazioni della forma, suo progetto in continuo divenire. Lo incontriamo prima di entrare, attraverserà il suo lavoro mostrandone i meccanismi, si servirà delle fotografie di scena di Gianluca “Naphtalina” Camporesi: mi dice che non sa come verrà, questo racconto lo fa di solito per una platea accademica, ma l’esperimento è interessante, gli dico, e mi metto ad ascoltarlo; che strano vederlo lì, un artista che mostra il proprio lavoro e non ne ha ancora perso l’imbarazzo, quella sensazione di estranea cattività in cui l’ha ideato, ora quasi storicizzato e per sua propria mano…è davvero una forma coraggiosa: in mezzo ai panni stesi, i motorini che sgasano via, le finestre semichiuse, nel buio di un cortile proietta le immagini del corpo medicalizzato e quello sacrificale, ragiona e dimostra, cita e riferisce, svela la tecnica e l’idea con cui plasmare la materia, generoso e fin troppo, mentre un cane gli abbaia da lontano che forse in questo cortile lui ha intenzione di fare altre cose, o come un gatto che passa di là – trovando tutta questa gente sul solito percorso – e fugge indispettito per sentieri soltanto suoi.
Si corre troppo in questo festival, mi piacerebbero momenti di pensiero propositivo tra le chiuse in sala, qualcosa che esuli dal solo andare a teatro e vedere spettacoli, che oltrepassi la condensazione e sciolga questo passo veloce in un disteso affiancare il teatro che accade. E invece di corsa per l’ultimo lavoro della serata, che va in ripetizione già da un po’: l’anno scorso aveva portato una installazione molto bella, Daniele Spanò, replica quest’anno con Il profumo del pane, lavoro di ricerca nelle storie del quartiere, nelle famiglie, nelle persone che hanno attraversato il secolo scorso, lavoro il cui risultato è proiettato nei loro stessi cortili, su lenzuoli stesi sui fili, e sembra di essere dentro la Bellissima di Visconti: Spanò crea immagini vive, incorniciate nel quadrato del tempo, immagini parlanti che raccontano nelle abitudini, nelle usanze di una società sparita, o forse superata, di antichi amori e valori; ma il passato, pur bello da mostrare, non può bastare, se si fa arte dalla materia c’è necessità di uscire, lavorarla per creare altro da quel che è rappresentazione, altrimenti non propone discutibilità e l’operazione è lo stesso amarcord di un qualsiasi Come eravamo della TV: perché devo considerare l’una arte e l’altra sottoprodotto? Non basta, dunque, come non basta l’accoglienza. Ma fiducioso, attendo.
Simone Nebbia