Il corpo mancante e il corpo presente. E vivo.
E il suon di lei.
Alessandra Cristiani.
Altrove e poco prima, ha inizio tutto: nella libreria del Teatro India, dove sono in scena in Motus con Alexis, una tragedia greca, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò incontravano il pubblico per presentare Un Colpo, raccolta di disegni e parole realizzate dal gruppo di Altre Velocità, intervistando e stimolando alla riflessione gruppi storici del panorama contemporaneo come Fanny&Alexander, Motus, Chiara Guidi/Societas Raffaello Sanzio, Teatrino Clandestino. I temi del libro, così, si sono incrociati alla riflessione sullo spettacolo e sul ruolo dell’impegno politico nell’arte e – come ha rintracciato Serena Terranova (con Alessandra Cava relatrici) – in fondo questa interazione è proprio l’esempio del teatro dei Motus. Il loro lavoro sulla tragedia racconta di un corpo in assenza, divenuto tale solo dopo la sacralizzazione del sacrificio, il corpo del ragazzo ucciso nel 2008 nel quartiere greco di Exarchia, Alexis sullo sfondo dell’Antigone è corpo mancante, dice Katia Ippaso nel suo intervento, corpo che non può essere perché fare arte di quell’evento significa non raccontarlo, lasciarlo sfilare negli sguardi di percezioni tutte individuali, quelle che ne fanno una collettiva. Dice Sergio Lo Gatto, poco dopo, che in fondo ogni grande e significativo evento della storia contemporanea è mediato dall’opinione pubblica ed è qui che si riannoda il discorso: il corpo diventa materia di analisi, di discussione, di percezione sensibile, smette dunque di essere corpo. Diventa mito.
I Motus devono andare, hanno spettacolo. Ma anche noi che dobbiamo raggiungere il Palladium per non perderci Opheleia di Alessandra Cristiani, dal dipinto omonimo del preraffaellita J.E.Millais. Per la strada ne parlo, sento che mi sto avvicinando, non mi capita quasi mai di sentire il passo scandito dell’arrivo in teatro, ma questa volta ne dico anche troppo, prima di vederlo, trascino con me qualche collega, qualche appassionato che si fida, sassi lungo il corso di un fiume in piena: lei attende sul palco, in un angolo, unico luogo da cui una storia può cominciare, il centro lo guadagnerà col tempo, e con il movimento. La suggestione è di una potenza esclusiva, il quadro si alimenta della presenza della danzatrice, l’animazione della forma pittorica diventa vera e propria esplorazione dell’immaginifico, un fiore rosso dell’anima perduta le ruota attorno, il segno della vita ch’è stata pian piano si fa sostituire dai fiori bianchi, della vita abbandonata; l’immagine è profondamente drammatizzata, la potenza visiva si affina nel racconto di sé, del corpo e di cosa esso nasconde, resta un fiore rosso nascosto tra i bianchi, pulsa ancora nel cimitero dell’anima; poi un cono di luce la cerca, la seduce, ha bisogno non di lei ma del solo suo abito e delle spoglie ancora pulsanti, nella costrizione si denuda di sé e si sdoppia, finché una deposizione mostra quel che è stato finora: ancora il corpo, nella muta violenza della pietà. Crediamo sia finito, ma come può essere? C’è ancora un fiore, rosso, che deve sciogliere il palco nella platea, farsi dono d’amore, solo allora la parola attesa, taciuta finora, può esplodere in un canto dolcissimo e finale. Ophelia aiuta Ophelia. Opheleia è plurale. Il corpo assente torna ad essere nella rinnovata sacralità: soltanto allora l’anima che vi scorre attraverso – linea arteriosa – torna di nuovo, ad essere presente.
E viva.
È questo, il suon di lei.
Simone Nebbia