Comincia tutto dalla platea, dove tutto finisce. Nei festival c’è questa speciale capacità comunitaria che si articola nei luoghi meno consoni, quelli in cui si dovrebbe stare in silenzio, e invece l’atmosfera familiare penetra anche oltre la sacralità dell’evento: sedersi di fianco è come scambiarsi una bottiglia di vino, ognuno è al centro di filamenti sorridenti ad ogni lato, parole come monetine lanciate in una fontana, per di nuovo tornare qui. È nella platea di questo secondo giorno di Teatri di Vetro 2011, il primo spettacolo di questo festival urbano.
Nell’attesa che MusellaMazzarelli diventino Figlidiunbruttodio, il critico di quotidiano stretto in mezzo da due (non più troppo) giovani della rete, lo stesso silenzio di tanti anni di mancato confronto, finché una voce, la stessa voce che in questi anni di continuo trascina i piani alti a vedere che cosa succede in cantina, lo incalza chiedendo perché questi giovani che vedono tutto e girano l’Italia non siano sui quotidiani, lui si scuote e sorride, non risponde, ma in quel sorriso pian piano saranno parole: primo contatto, si direbbe per gli alieni.
Lo spettacolo inizia e da subito mostrano i due un’eccellente qualità compositiva, un testo a vocazione grottesca della migliore tradizione, con personaggi delineati da un tratto fresco e convincente: due amici diseredati alla fermata del bus, parlano di sogni e mancanze, confrontano il proprio bruto destino senza in fondo prendersela con nessuno, con autentica leggerezza. Poi, dopo una proiezione in fotosequenza di lacrime e dolori televisivi, la scena cambia: ufficio di network televisivo, un ragazzo esagitato trema di fronte al suo mito, il manager che dovrà selezionarlo per un reality show; nel dialogo fra i due, di ottima qualità, prende corpo il tema complessivo che riguarda il gioco del potere e la seduzione che lo alimenta, proprio mettendo in campo il momento preciso in cui questo sistema di gioco di ruoli è più espresso: una selezione di futile obiettivo, caricata di aspettative, in cui la distanza di subordinazione è alle estreme conseguenze. Nell’iperrealismo costruito con un eccellente innesco poetico, la terribile coscienza di una piena aderenza al realismo. Ne è un esempio un’altra ottima scelta: subito dopo il dialogo notevolmente pendente, il manager al microfono inscena l’unica cosa che realmente deve interessarci della finta umanità appena espressa: un report di utili alla riunione azionisti, incomprensibile sequela di dati e parole ignote, in cui si intuisce si parli di mercato, soldi, successo, commercio di sentimenti, totale assenza di pudore e dignità umana: di questo padre, il brutto Dio, siamo tutti figli. Tutto sarebbe finito, ma sei i due si fermassero qui avrebbero replicato il sistema che discutono, e invece con leggerezza si chiude il cerchio, i sentimenti esistono ancora, in attesa che arrivi il bus.
Inizia a fare fresco e bisognerebbe avere una giacca per seguire Time for talk is over di Garten, al Lotto 32. Questo spettacolo a Roma passò qualche tempo fa, all’Angelo Mai, dove fu chiara la necessità di vederlo dall’alto, come invece non accade qui, dove ci spingiamo tesi in punta di piedi fino ai muretti lontani, forse troppo per vedere. Ed è un peccato perché a memoria il progetto era molto interessante, un teatro installativo che si articola sul rapporto tra edificio e distruzione (come anche nel precedente I will survive), lasciando un segno su un panorama contemporaneo che di segni tangibili ha bisogno: una costruzione in divenire, una città che è modellino plastico in scala, in cui arterie di rosso passano a dirlo vivo ma anche a spargere sangue per le strade, il rosso diverrà poi nero, cioè il passaggio dal sangue all’oblio, la rassegnata coscienza di una distruttività connaturata al bisogno continuo di costruzione.
Spunta una ragazza da una finestra di poca luce, è giovane e dai lunghi capelli ricci, si sporge in uno sguardo curioso per i suoni o forse per la gente assiepata, la vedo uscire un minuto dopo dal portone, ha capito tutto, lei: dalla piccionaia, si sposta in prima fila.
Si torna al Palladium (Epica Pop l’ho saltato, tutto non si riesce…) per vedere Cuore_come un tamburo nella notte di Reggimento Carri, alla regia Roberto Corradino. E, dunque, si torna in platea, alla condivisione, a questo parlare che è bello come il silenzio. Ma stiamo zitti, quando si fa buio nella sala. Tredici attori in scena, una classe fuori dalla classe: sullo sfondo il buonismo della storia d’Italia che ha il proprio fondamento (anche un po’ soltanto ideale…) nel Cuore di De Amicis. L’idea, dalla scheda, è quella di mettere a nudo un paese per vecchi, in cui è impossibile una paternità e in cui è impossibile – già grandi – diventare adulti. Questo il progetto, che vorrebbe discutere dunque di retorica e dare nuovo senso alla parola NOI. Il risultato, tuttavia, non è all’altezza delle promesse, lasciandomi considerare una messa in scena di stampo laboratoriale, una costruzione per scenette e situazioni di scarsa connessione drammaturgica, ricca di distrazioni musicali, canti, balli e insomma scappatoie spettacolarizzate, ma che non posso considerare un debutto con tanto di firma notevole come quella di Corradino. Un progetto dunque che nel suo campo potrà avere tutta la sincerità dell’idea e della preparazione, ma di cui non vedo la necessità in un’occasione come Teatri di Vetro, per l’importanza delle sue credenziali: dalla platea si esce, un dialogo iniziato lì e finito fuori mi dice di interrogarsi di nuovo sul professionismo autoriferito, di ritracciare alcuni parametri che la ricerca ha giustamente, in questi anni, messo in crisi. A patto però che, della crisi, non si diventi le prime vittime.
Simone Nebbia
non è che dell’ultimo capoverso si intuisca bene il ragionamento iniziato là e finito fuori… cioè, che vi siete detti? quali parametri messi in quale crisi? ritracciare entro quali limiti?
Gentile Willy Fog, mi duole che non sia chiaro e infatti non lo è, maledetta scrittura compulsiva…Ma la chiarezza sia intanto degli intenti: si parlava senza precisi obiettivi di chissà che riforma, assolutamente poi non certo secondo parametri di chi ne parlava (nè miei). L’idea era in relazione a una generazione talentuosa che ha sovvertito l’impero accademico (ecco la crisi) in questi ormai non pochi anni, accentrando la responsabilità di scena e sviluppando uno stile molto personale, a partire non da un tessuto preparatorio ma da sè stessi, dalla propria urgenza organica e dall’autoformazione. Questo è quanto la ricerca, specialmente a Roma, ha prodotto dagli anni ’90 e con successo. Tuttavia ora, fatti grandi alcuni “ragazzi terribili”, io avverto siano un po’ presi nel loro gioco di alterità rispetto a un canone, finendo per cavalcare opportunità artistiche in tono decisamente minore. Quindi se parlo di parametri non sto cercando di fare delle griglie, non sia mai, la mia lamentazione è piuttosto un interesse verso i percorsi di certi artisti perché riguadagnino una rotta che avverto perduta. Non certo parlando di limiti, ma di nuova discutibilità e analisi del lavoro che svolgono, il mio-nostro lavoro è tutto qui e loro ne sono i diretti interlocutori, perché come noi connaturati a un ambiente, certo più di altro genere di esperienze fuori dal tessuto indipendente. Grazie per avermi permesso di precisare. SN
Alterità rispetto a un canone??
Spero tu stia parlando di un cane grosso perché altrimenti non ho proprio idea della cosa cui ti stai riferendo con questa espressione! 🙂
Caro Daniele, non mi sembra di dire stramberie se affermo che tu e molti tuoi colleghi vi siete inseriti in un solco un po’ laterale rispetto a una maniera accademica di sentire il teatro, affondando in risorse che riguardavano più una spinta interna che altro. Se parlo di alterità è un valore, per cui tuttavia avverto – e lo sai perché ne abbiamo tanto parlato – il rischio di perdere incisività.
La speranza è che il grosso cane, oltre che abbiaiare, torni anche a mordere.
🙂