Gli amici con il cappotto già indosso, sulla porta di casa, dispensano gli ultimi sorrisi prima di infilarsi per le strade che li porteranno alle loro case, nelle loro vite, qualcuno si intrattiene per una battuta di più, qualcuno s’era già addormentato sul divano un’ora fa, sulla tavola in salotto, sotto le luci accese dei faretti incastonati nel soffitto e per le pareti, restano muti e inerti, avanzi e stoviglie da lavare. L’ultimo giorno di qualcosa ha un po’ questo sapore dolceamaro di un finale che concluda degnamente e in fondo apra al riposo dalle fatiche, mentre dall’altro lato un velo di tristezza coglie come per le prime piogge dopo l’estate. Questa sensazione contrastante è dentro tutta quest’ultima serata, l’ottava, che chiude questa edizione numero cinque di Teatri di Vetro.
È dunque il momento di sparecchiare, di tirare cioè le somme di cosa è stato e soprattutto cosa si avvia ad essere, questo appuntamento romano multiforme per le strade e i cortili di un quartiere popolare come Garbatella. Ma prima di tutto questo, non bisogna dimenticare che abbiamo ancora teatro – e di livello – da vedere anche stasera.
Così nella platea gremita (e che bello!) del Palladium, tocca stasera ai ragazzi di Punta Corsara che – regia di Emanuele Valenti – portano in scena Il signor di Pourceaugnac –Farsa minore da Moliere. La giovane compagnia, nata nell’ambito del progetto dell’Auditorium di Scampia (premio speciale Ubu 2010), è un gruppo robusto sia sul piano artistico che organizzativo, e ne è una prova questo lavoro solido e vincente che non regalano alla semplice e ovvia opportunità di divertire, ma si spingono a reinterpretare seguendo quella nota di violenza sotterranea e di inquietudine che in Moliere, nonostante travisamenti moderni frequentissimi, è decisamente presente. Valenti dirige un gruppo di attori molto affiatato, facendo propri gli insegnamenti di maestri come Marco Martinelli (da cui la nota violenta) e Arturo Cirillo (da cui impara la linea dei personaggi); stimola così alcune punte interpretative davvero efficaci, curando inoltre traduzione e adattamento (con Antonio Calone), recuperando notizia che Moliere si sia servito di canovacci della Commedia dell’Arte, per questa scrittura. Quindi quel che sembra una trasposizione non lo è, ma un viaggio d’andata che in realtà è di ritorno. Lo spettacolo si porta l’entusiasmo della loro energia, attori frizzanti che amano conservare – nella loro maniera personale – lo spirito di Moliere con eleganza e sensibilità; in questa energia però prende corpo quella vena feroce che segna il percorso dello spettacolo: si ride e si partecipa, ma si mantiene alta la carica espressiva del segno violento, favorendo inserti modernizzanti con delicatezza e mai dimenticando lo spirito di sberleffo e l’azione comica, accentuando senza eccessi certi vezzi del territorio di provenienza: si muovono e ascoltano, i muri, a Napoli e nelle commedie, che sono poi lo stesso luogo.
Alla Villetta, dove si mangia e si beve nel dopofestival, stavolta si legge poesia: Amaro Ammore di Canio Loguercio è un raduno poetico all’aperto, sembra una festa sudamericana; un palco che sembra improvvisato, una fila di poeti accoglie al modo in cui sa, con la parola, sussurrando sottovoce un fiato d’anima: alcuni li conosco e li saluto, altri li ho visti solo come immagini su internet o nomi sui libri, ma posso dire a vederli agenti della propria parola che le due cose, qui, in questo morphing sentimentale, sembrano quasi coincidere. Mentre fra qualche giorno a Castiglioncello aprirà il ciclo di poesia Ai Margini del bosco, ora sembra lontano il fantasma di Castelporziano e il festival internazionale del Beat ’72, ma come sono vicini i protagonisti che si rinnovano nella suggestione di rivivere esperienze sul filo dei tempi che cambiano. Ma certa meraviglia, invece, con il tempo non cambia.
Poi c’è la festa finale, all’Angelo Mai, Silvia Calderoni dei Motus alla consolle del deejay. Si balla e con qualcuno si parla del futuro, di quel che è stato e quel che sarà. Quest’anno l’offerta artistica non è sembrata così alta, con buoni lavori soprattutto nella danza e qualche attestazione di talento per artisti già affermati; il pubblico ha seguito meno degli altri anni, almeno a giudicare da una percezione da platea o dalla flessione dialettica attorno all’evento, registrata nei luoghi di discussione sia reali che virtuali: nel complesso dunque, il festival che è a tutti gli effetti rappresentativo della città di Roma, ha avuto un calo preoccupante in termini di interesse e partecipazione che mi sembra debba aprire una profonda riflessione dell’intero ambiente, non soltanto di chi l’organizza e gestisce, perché Teatri di Vetro è ed è stato così importante da diventare in pochi anni quel bene comune che si attaglia ultimamente così bene alla cultura, specie da proteggere, in via d’estinzione, ridotta negli spazi e nelle occasioni. Ricominciamo a parlare: c’è un quartiere da far vivere, una città attiva e in grande fermento, una necessità emergente e insoluta, soprattutto c’è un finanziamento pubblico erogato dalle amministrazioni. È un bene importante, vitale. Sappiamo tutti che, dovessimo perderlo per incuria di chi si allontana e non partecipa, non ce ne sarà un altro.
Simone Nebbia