HomeVISIONIRecensioniIl grande bianco opaco: L'origine del mondo di Lucia Calamaro

Il grande bianco opaco: L’origine del mondo di Lucia Calamaro

Si potrebbe stare giorni, a parlare del solo titolo di uno spettacolo. È forse questa una delle caratteristiche più forti della ricerca: spargere segni negli angoli più rabbuiati, disseminare pertugi di luce per veri speleologi. L’origine del mondo, ritratto di un interno è la nuova fatica di Lucia Calamaro – con in scena Daria Deflorian e Federica Santoro – di lei si porta la volontà di essere in scena anche quando è dietro i comandi della regia ed è questa una sua cifra ormai riconoscibile. L’origine del mondo è il titolo di un’opera famosa quanto lo scandalo che generò e genera ancora: Gustave Courbet ritrae un sesso femminile da vicinissimo, determinando la donna come culla di civiltà, il turbamento di guardarlo coinvolge e sconvolge, ma qui interviene la Calamaro: non è questa un’entrata? L’arte dell’arte si nutre, ma per superarla dovrà penetrarla e andare oltre il visibile: ecco dunque dove nasce questo ritratto di un interno, la scelta di indagare quell’oltre necessario a una nuova coscienza dell’origine, nell’interno del mondo cercare ripiegata in sé, nelle inquiete piccole follie quotidiane, l’origine dell’uomo.

Quella proposta è la prima parte di un progetto che ne prevede tre: donna melanconica al frigorifero è un’immagine fluente e dichiaratamente quotidiana, indaga il senso di crisi a contatto con le piccolezze, i gesti usuali, le manie, tutto a nascondere una vertigine di vivibilità che innesca la caduta nell’invivibile; la trasfigurazione del quotidiano è fatta di interstizi, di piccoli binari dove scorre un universo la cui origine invece di essere preistorica, sarebbe da definirsi pre-isterica: c’è un grande immenso spazio bianco opacizzato, anche gli abiti delle due attrici hanno una sorta di velo sul pastello, una patina spenta, è questa la nettezza offuscata di quell’origine, riposta in una compromissione di perduto candore. La solitudine della Madre e della Figlia – archetipi di umanità – confluiscono nel rapporto con la psicanalisi che assume su di sé, nella parte centrale, una complessità forse eccedente e poco fruibile, soprattutto dal substrato filosofico dove attinge, in cui però si tiene la cifra stilistica di spessore e nella cui pulsazione cerebrale la drammaturgia cerca un cardine interno – appunto – come i chirurghi in guanti bianchi nei tessuti anatomici.

La messa in scena è scheletrica, barbarizzata e ossuta, lo è nel ritmo, nell’occupazione cadenzata dello spazio, nell’estensione debordante che allarga la percezione fino a perderne i contorni; in questa struttura sulle due attrici pesa il compito arduo di sostenerne il carico, ma è proprio qui che la loro presenza si fa determinante: bravissima Federica Santoro nella doppia veste di figlia e psicanalista, ma è Daria Daflorian che fa urlare alla fortuna di essere in sala, lei filtra l’esperienza vitale dell’artista e la dona alla scena, lei si prende un tempo sapiente e ci respira dentro le parole del suo testo, lei usa l’ironia a fini espressivi senza mai eccedere nella giocosità, lei si assume il compito di sciogliere in sé i toni del magnifico e del quotidiano, attrice che non annienta dunque, ma raddoppia, la propria viva umanità.

Lo spettacolo è dunque in nuce, l’artista dovrà molto lavorare in termini di confezione e di amalgama strutturale, anche la drammaturgia vive una difficoltà nella parte centrale che si porta un rischio di concettualismo che esteriorizza fin troppo i contenuti, finendo a volte nell’erudizione non giustificata, ma è indubbio il suo valore: una volta scoperta la propria visione bruta, in quell’universo annoiato e inalterabile, Calamaro si prende la responsabilità di dirne la caduta inesorabile, l’incapacità di agire in un mondo che annulla la stessa azione. In questo ritratto intimo, l’indagine accurata e cruda, dell’origine del mondo.

Simone Nebbia
visto il 30 Aprile 2011
Teatro Palladium (ZTL)
Roma

leggi anche l’articolo di Presentazione di Ztl 2011

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