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HIC IACET CORPUS: Riccardo Caporossi in mostra – Una riflessione sullo statuto dell’arte teatrale partendo dal confronto con le arti figurative

La mostra Hic iacet corpus, ospitata dal museo Bilotti, mette in luce il confronto tra un artista visivo, Alfredo Pirri (prestato al teatro all’inizio della sua carriera con la compagnia Kripton…) e un’artista performativo, Riccardo Caporossi, che abitualmente assorbe l’arte visiva in quella scenica, chiamato, nel suggestivo spazio dell’aranciera di Villa Borghese, ad esprimere la propria visione in una forma ed in uno spazio statici, quello espositivo.

Da cosa è colpito lo sguardo dello spettatore, sia esso frequentatore abituale di musei e gallerie e /o di teatri? Si trova coinvolto in uno scontro e in un confronto fra due pratiche, quella performativa e quella espositiva, che afferiscono a due linguaggi, semiotici ed estetici differenti.

Sicuramente bisogna riconoscere la diversità dei due statuti artistici e, nel farlo, asserire la possibilità che essi hanno di incontrarsi senza perdere ognuno le proprie peculiarità.

In questa sede, e grazie all’occasione che la mostra offre, mi interessa lanciare uno spunto di studio di carattere più generale, che rifletta sulla la diversa tipologia di sguardo, dell’occhio e della mente, che si applica alle due tipologie di immagine, o meglio di testo visivo, uno in movimento, l’altro in esposizione.

A tale scopo scelgo, come correlativo oggettivo dell’analisi, un particolare elemento di una delle opere di Riccardo Caporossi presenti alla mostra: una sedia di legno impagliata su cui sono conficcati più di una decina di grandi chiodi. Se la descrizione del particolare di un’opera più grande, Hic iacet corpus (da cui il titolo della mostra), che vede la presenza di altre undici sedie ed altrettante “storie”, si fermasse qui, potrebbe suggerire analogie e somiglianze con le pratiche dell’arte povera e far pensare ad un’opera di Jannis Kounellis (che ne è tra i più illustri rappresentanti)… sotto la sedia però una macchia di vernice rossa, macchia come sangue il pavimento ed il legno stesso di una delle gambe. La presenza stessa di quella macchia che allude al  sangue, e la finzione che essa manifesta esplicitamente, insieme al parossismo che la fattura dei chiodi mette in luce, dirigono lo sguardo verso la dimensione spazio-temporale della drammaturgia, o meglio della narrazione. Attraverso la sedia del chiodo fisso sicuramente Caporossi parla di battaglia, di rivoluzione, del corpo sociale o della mente, ma l’oggetto della narrazione che l’opera mette in campo in questa sede mi interessa meno del fatto stesso, e della sua eccezionalità, che un’opera, che assume i canoni dettati da un contesto espositivo, possa nonostante ciò narrare, adempiere cioè al compito regio del teatro: stare contemporaneamente nello spazio come nel tempo, restituire lo stesso tipo di esperienza.

Lo sguardo che segue le diverse paia di scarpe (la scala degli invisibili) su per la scalinata che porta al secondo piano del museo, lo stesso che gira attorno al circolo di sedie che delimita lo spazio in cui si staglia un lenzuolo bianco, o all’opera che, in uno spazio simile ad un ring, accosta come un rebus, una pistola, un mazzo di chiavi, una scarpa (Me e Me), riconosce, nella staticità degli oggetti esposti, grazie alla modalità di esposizione nello spazio: il movimento, sintomo e segno distintivo di una presenza viva ed umana, che una volta indossò le scarpe, utilizzò le chiavi, sparò, e lasciò che il suo o l’altrui sangue colasse sotto la sedia… Il corpo non è presente, l’abito giace a terra, schiacciato dal cappello, privo di riempimento, di respiro, ma è richiamato dal movimento (quello che al primo approccio potrebbe sembrare caos, disordine) che la composizione spaziale degli elementi evoca.

Così anche la titolazione delle opere, che procede per metonimie (la sedia del chiodo fisso) e allegorie di stati emotivi (gli invisibili), abbandona il campo dell’astrazione, indica l’oggetto per superarlo, collaborando alla sua funzione narrativa.

L’intervento di Riccardo Caporossi, che confrontandosi con la dimensione espositiva ne accetta l’assenza ontologica di un corpo come di una possibilità di narrazione teatrale, ribadisce invece la presenza viva di quel corpo come di una dimensione narrativa, assume, rispetto alle consuete modalità dell’arte visiva, un diverso rapporto con il tempo.

Nelle arti figurative contemporanee, come anche in questa mostra per quanto riguarda le opere di Alfredo Pirri, l’opera dell’artista si posiziona lungo una temporalità che assume i connotati di una linea retta, cioè senza né origine né fine, individuabile da un unico punto, il punctum appunto, che identifica il momento dello sguardo dello spettatore sull’opera, sguardo che si lascia catturare da un particolare o comunque da una particolare visione dell’opera senza indizi narrativi, né segni riconoscibili che possano indirizzare la prima visione. Nello stesso tempo però il fruitore si vede costretto a confrontarsi con passato e futuro come dimensioni interiori ed esterne, dell’io e del mondo.

I lavori di Caporossi accolgono invece il particolare rapporto con il tempo che è proprio del teatro, visualizzabile in un segmento, quello del processo drammaturgico, con un inizio ed una fine che coincidono con l’intento narrativo.

Parliamo della dimensione umana, del ciclo vitale e del suo necessario concludersi. Forse è l’attaccamento a questo principio di realtà, un continuo indicare i confini della vita per riconoscerne l’essenza, che si concretizza appunto nella presenza viva dell’attore in scena, che identificano l’arte teatrale, laddove le arti figurative, anche nelle manifestazioni più materiche si proiettano aldilà del taglio, dove scorre l’infinito.

Naturalmente la riflessione che ho fin qui portato avanti si concentra su quelli che sono i canoni, delle due differenti tipologie di espressione artistica. A tal scopo ho volutamente omesso la problematica dell’ibridazione, che oggi diventa integrazione dei diversi linguaggi artistici in teatro, così come nelle arti figurative. Questo perché, nonostante l’osmosi tra i generi, esistono differenze teoriche e sustanziali tra i diversi campi artistici, primo fra tutti il rapporto con il tempo, che dipende dal contesto piuttosto che dal linguaggio scelto. Ed è importante, in un momento di cambiamento, come quello in cui viviamo, ricercare l’origine della problematica, riconoscere le differenze per poter constatare le analogie, riflettere sugli intenti oltre che sugli effetti del cambiamento.

Chiara Pirri

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