Uno degli appuntamenti di punta di oggi a B.Motion Opera Estate di Bassano del Grappa è The End, il disarmante affresco sulla morte offerto da Babilonia Teatri (ore 22.30, Garage Nardini). Dello spettacolo, che li 26 agosto è stato ospitato nella serata d’apertura del Festival Castel dei Mondi di Andria, riproponiamo qui la recensione.
Io sono nata oggi, o meglio 21 anni fa, e nel mio tempo della morte non si parla.
Si parla di politica, viaggi, sesso, soldi, ma non di quando tutto questo finirà.
L’ultimo spettacolo dei Babilonia teatri, che tornano per la seconda volta al teatro Palladium, tenta di affrontare il tema, con i nostri mezzi, le parole e le visioni del nostro tempo.
Su di una scena illuminata da un potente piazzato, sta Valeria Raimondi in un vestito di paillets argentate, capelli rasi e pistola nella cintola. La scena è vuota se si esclude un frigorifero ed il Cristo in croce che lei stessa issa poco dopo l’inizio dello spettacolo. Ai lati del Cristo verranno appese le carcasse delle teste di un bue e di un asinello, che l’attrice estrae dal frigorifero. A fine spettacolo una stella cometa scende a completare il presepio.
La scena è un detonatore dell’oggetto che accoglie, soprattutto quando di questi si fa un uso moderato come nel caso dei Babilonia, dunque questi soli quattro elementi apportano un senso che deflagra. L’immagine più nota dell’iconografia cattolica è dissacrata, le teste delle bestie svelano la carne viva dietro il muso d’animale: la visione consolatoria che la religione offre come rifugio dalla paura della morte non è più sufficiente.
In precedenti messe in scena dello stesso lavoro (a Bassano e a Santarcangelo) il recitativo era suddiviso, come d’uso negli spettacoli della compagnia, tra tutti e tre gli attori. In quest’ultima versione l’attrice è sola a sostenere l’intero testo in un lungo monologo, interrotto unicamente da un ballo di gruppo sulle note di “Ciao amore” (un ciao che è un addio alla vita).
Penso che la scelta sia giustificata dalla necessità di suscitare un seppur timido tentativo di partecipazione emotiva da parte dello spettatore, verso un tema quale la morte, che la ragione non può cogliere nel suo aspetto più recondito e vero.
A tal proposito, la suddivisione del testo in parti (ma non in personaggi), unitamente alla recitazione atonale, enunciativa più che interpretativa, caratteristica eminente della compagnia, volta a non indirizzare l’ascolto verso alcun giudizio predefinito, immagino provocasse un eccessivo effetto di straniamento.
Il testo, aspetto preponderante dello spettacolo, tratteggia con ironia il ritratto di una società di Dorian Gray, che rifugge la vecchiaia e nega la morte.
La critica si rivolge in principio alle forme di esistenza virtuale che negano un rapporto diretto con la vita e dunque con la morte, sua naturale conseguenza: la morte ai tempi di facebook permette di non perdere i propri amici nel trapasso, l’inesorabile passare del tempo può essere dissimulato senza lasciare prove.
Poi alla perdita di mistero: sappiamo tutto della vita, della nascita, le cicogne sono scomparse, i cavoli marciscono nei frigoriferi, i genitori “scopano”, ma non conosciamo più la morte: non siamo noi ad essere partecipi del lungo processo che porta i nostri cari a spegnersi, ma donne sconosciute che vengono da lontano. Di conseguenza il sogno dell’anziano è “…l’alito di un bue/di un asinello/(…)sogno di trattenere la vita finchè posso/non oltre/sogno solo voci familiari”.
Che non guardiamo più in faccia la morte, che non è più nostro pane quotidiano, che ne abbiamo perso il senso, è un’accusa che non si può negare.
In seconda istanza l’attrice invoca un boia, pret à porter, fedele, che le permetta di sfuggire ad una morte lenta, antidoto al deperimento di un corpo non più riconoscibile nella vecchiaia.
La morte è dunque anche invocata, come da migliore cultura giovanile.
Dopo aver manifestato il desiderio di riavvicinarsi alla vita ed al suo corso naturale, riaccostandosi alla vecchiaia e alla morte, il timore riconduce al desiderio di non essere presenti al proprio deperire.
Anche attraverso la canzone dei Doors che da il titolo allo spettacolo è invocata la morte “the end, beautiful friend…my only friend”, dopo aver riconosciuto insieme a Quasimodo che “ognuno è solo…ed è subito sera”.
Così termina lo spettacolo, o meglio, con l’attrice che esce per rientrare in scena con il suo neonato tra le braccia.
Dopo aver distrutto la morale cattolica nella sua immagine più rappresentativa: la natività, un’altra natività è evocata e posta ad icona, laica, ma borghese (forse nuova forma di religione e fonte di moralismo). L’immagine della madre con bambino dal profondo della sua dolce verità sembra dirci: riproduciamoci per scampare alla caducità animale. Non sarebbe un monito moralista se non fosse imposto come una didascalia in grassetto sotto una foto.
L’impressione che ho, al contrario di quanto si legge nella presentazione dello spettacolo e di quanto lo spettacolo stesso vorrebbe dimostrare, è che, paradossalmente, la morte oggi sia un’esperienza quotidiana.
Laddove tutti la rifuggono essa è ancor più presente, è viva nelle vite di chi la combatte attraverso la lotta al tempo che passa.
Ci istruiscono al carpe diem: vivere alla giornata approfittando di ciò che l’assenza di progettualità e la rapidità d’esperienza può offrire di gratificante, per distoglierci da un pensiero che dall’analisi storica prenda le mosse per creare il futuro. Ci hanno sottratti alla storia e all’utopia ed in cambio ci offrono Tecnica e Mercato per rifarci un corpo migliore, che neghi l’invecchiamento e la morte, per trovare risposte rapide.
Così muoriamo ogni giorno per resuscitare il giorno dopo in cerca della nuova occasione da cogliere, per vivere il nostro istante di piacere.
Anche la morte ha perso valore, perché perde valore ciò su cui visibilmente agisce: il corpo, la carne.
La carne a cui ci ha istruito la cultura di massa di cui facciamo parte non ha nulla del corpo luminoso ed utopico di cui tratta la migliore letteratura teatrale del Novecento.
Dal corp sans organes qui danset à l’invers d’Artaud, che vive nella carne una dimensione trascendentale, oggi il crudo materialismo diviene quasi sadismo verso il corpo, come nell’ultimo spettacolo di Romeo Castellucci (Sul concetto di volto nel figlio di Dio), dove senza sublimazione viene affrontato il tema della vecchiaia e del suo rapporto con la malattia.
Figlio di una visione pragmatica è (forse ancor più rischioso): il disincanto, di cui i personaggi di Houellebecq, fenomeno della recente letteratura, si fanno portavoce in una vita che accetta di vivere nei limiti, e che nell’appagamento di ciò che questi possono contenere si reputa felice.
All’interno di una discussione e problematica eminentemente contemporanea, The end ritrae una realtà senza offrire alcuna via di scampo. Ciò che domandiamo non è una risposta reale quanto la situazione tragicomica che lo spettacolo stesso dipinge, ma poetica ed utopica, una possibile via che esalti la vita attraverso il corpo, con tutto la sua caducità che non è decadimento. Una possibilità di fuga e stasi dal/nel reale, fosse anche solo per il tempo di uno spettacolo.
Chiara Pirri