Quasi mezzo secolo separa l’uscita cinematografia di I pugni In tasca dalla sua nuova riduzione teatrale. Eppure, ancora vicino appare quel 1965 in cui il film capolavoro di Marco Bellocchio incontrò per la prima volta critica e pubblico, imponendosi come il simbolo di una nuova umanità allo sbaraglio, di una società che vedeva crollare rapidamente costume e istituzioni, fino alla corruzione degli stessi rapporti familiari, della vita all’interno delle mura domestiche. Un simbolo anche politico, quello che molta critica volle identificare all’interno del film, che si poneva come anticipazione, prefigurazione o presagio dell’imminente Sessantotto. La sua rivoluzionaria violenza era rappresentata allegoricamente dall’inconsapevole e apatica crudeltà dei fratelli Giulia e Alessandro, lui assassino di madre e fratello con handicap, lei ingenua complice, nonché oggetto di attenzioni incestuose.
Oggi, prodotto da Roberto Toni, per la prima volta a Roma al Teatro Quirino (dall’1 al 13 febbraio), I pugni in tasca viene trasposto in opera teatrale grazie alla penna dello stesso Bellocchio – che ha riscritto il testo per l’occasione – e la regia di Stefania De Santis. Nella trasmutazione del segno cinematografico per il suo conseguente adattamento al linguaggio teatrale, Bellocchio opera ripulendo il testo da ogni implicazione politica nel tentativo di focalizzare la banalità e la semplicità della crudeltà insita alle azioni dei protagonisti. Citazioni puramente teatrali emergono lentamente nella messa in scena che richiama alla memoria tanta drammaturgia moderna (da Pirandello agli ambienti familiari di Cechov) e che conserva del film solo le musiche di Ennio Morricone. Su queste stesse note – e forse schiacciati dalle immagini filmiche che queste note evocano – si muovono i personaggi teatrali rielaborati da Bellocchio, perdendo definitivamente, nel passaggio da immagine a corpo, la loro conturbante e oscura psicologia. Non c’è ambiguità nella riduzione teatrale di I pugni in tasca ma una serie di azioni melodrammatiche che scivolano sul palco in una successione (al limite del prevedibile) che concatena causa ed effetto; mentre azione e parola si susseguono in maniera ingenuamente didascalica. Non aiuta la regia di Stefania De Santis, il cui sguardo sembra perdersi in una scenografia austera e inutilmente complicata che raggruppa gli ambienti in unico spazio movibile a più livelli. Pareti che ruotano, interi piani che scivolano in avanti, senza che l’azione scenografica sia legata al dramma o ad un ulteriore ed eventuale significato scenico. Colpo d’occhio cinematografico? Metafora della macchina da presa che zoomma situazioni distanti per portarle dinanzi allo sguardo dello spettatore? D’altronde tutto il montaggio dello spettacolo, tra tempi morti e salti temporali che spezzano aridamente la narrazione (vedi l’improvvisa morte della madre), tra flashback cinematografici malamente trasposti sul palcoscenico con il solo obiettivo di rendere più intricata una trama estremamente lineare, sembra strizzare l’occhio al linguaggio filmico, adottare i suoi tempi, senza focalizzare, invece, la materia viva della scena. Stesso discorso valga per il sottofondo musicale ridicolizzato attraverso una profonda ambiguità linguistica che lo vuole al contempo diegetico ed extradiegetico (Giulia accende la radiolina ma la musica arriva amplificata come contorno della scena e non come elemento interno ad essa). Finzione e bidimensionalità, insomma, per un nuovo melodramma che rifiuta completamente la sua originaria crudeltà. Da apprezzare, nonostante tutto, la sorprendente interpretazione di una versatile e ambigua Ambra Angiolini e di un efferato Pier Giorgio Bellocchio. Unici elementi “vivi” dell’intera messa in scena.
Matteo Antonaci
in scena fino al 13 febbraio 2011
Teatro Quirino [vai al programma 2010/2011]
Roma
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