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Da questo vuoto felice: gli “Esercizi di rianimazione” di Andrea Cosentino

 
nella foto Francesco Picciotti – Novo Critico 2010

Alcuni di noi giovani critici lo hanno definito lo spettacolo più tragico di Andrea Cosentino, io sono capitata una serata (s)fortunata e lo definirei nichilista, non nel senso buio e pessimista del termine, ma di un nichilismo che faccia da incipit per un nuovo inizio, un nichilismo sempre ironico, che afferma tanto la sua essenza quanto il contrario di sé. Fare piazza pulita per ricominciare. Rileggere il proprio passato da attore-artista, nei suoi desideri ed intenti per lasciare qualcosa indietro e fare un nuovo salto.
Mi suggerisce la stessa operazione che Heiner Müller fece con l’Amleto di Shakespeare in Hamletmachine: distruzione, perché resti una memoria emotiva.
In Esercizi di Rianimazione, Andrea Cosentino fa a pezzi il suo personaggio, quello di Telemomò, di Primi passi sulla luna, lo cita e lo distrugge in frammenti.

Un lato del palcoscenico è occupato dai suoi oggetti di sempre: la mano di legno, la bambola, la gamba di plastica, i peluche, e da innumerevoli nuovi oggetti. Andrea li prende, alla rinfusa e senza la solita delicatezza, li anima, a volte accompagnato da accenni di musichette. Crea incipit di storie appena accennate, “in” senza “cipit”, neanche il tempo di stimolare l’immaginazione dello spettatore che già distrugge ogni possibilità di narrazione con un gesto sghembo del corpo. La performance, attraverso questo grado zero della narrazione, sembra voglia esplicitare il vuoto che coglie l’artista all’inizio di ogni principio creativo, quel vuoto che precede e da cui nasce ogni idea.
Quando e come la materia del teatro, gli oggetti, il suono, diventano narrazione e sentimento? In cosa consiste quella magia che li trasforma?

E’ lo spettacolo più meta-teatrale di Cosentino, dove la sua propensione, mai palesata in modo esplicito, per la teoria e la speculazione sul teatro, trova manifestazione, con la stessa arguzia e senso critico che si evincono da interviste e scritti dell’artista stesso.
Un mendicante (Francesco Picciotti) accoglie il pubblico all’ingresso del teatro, vicino a lui un cartello in cui sono riportate le parole attraverso cui Artaud chiede di poter tornare a fare teatro nelle piazze, senza bisogno di soldi, ”datemi solo una casa, del cibo e qualcuno che cucia i vestiti”.
La voce di Andrea Cosentino è diffusa da un vecchio registratore, il mendicante-marionetta fissa su di noi il suo sguardo finto, mostrando la sua gamba di plastica (sempre la stessa che altre volte rappresentò “il pezzo di gnocca”) e chiedendo: “Mi dai dei soldi? Se ti dico che le mine anti-uomo che mi hanno amputato la gamba sono fabbricate in Italia , mi dai dei soldi? E se ti dicessi che la gamba me la sono amputata da solo per chiedere dei soldi, ti farei più pena? Allora mi daresti dei soldi? (…) Mi dai dei soldi perché ti provoco? Pagheresti qualcuno per farti provocare? Ma se vieni qui già con l’intento di farti provocare, come posso provocarti? (…) Il teatro fa domande ma non da risposte. Pagheresti qualcuno per farti delle domande? (…) Mi dai dei soldi perché sono libero? Pensi che con i soldi puoi comprare la mia libertà? (…) Se chiudessero gli ospedali i malati protesterebbero e se chiudono i teatri? (…) Chi deve pagare i teatri? Stato, privati, i famigerati mecenati? (…) L’arte deve essere popolare?”

 
Nella foto Andrea Cosentino – Novo Critico 2010

Cito a memoria parte delle domande che precedono la performance di Andrea Cosentino e che ne sono il presupposto teorico. Anche in questo spettacolo l’attore-autore svela il meccanismo per esplicitare la dialettica tra realtà e finzione, come in Telemomò decostruisce il montaggio, nucleo della finzione televisiva, qui sottolinea la morte sostanziale dello sguardo della marionetta su di noi. Ma la digressione oggi amplia i propri orizzonti, allude alla possibilità di affrontare in modo problematico, attraverso lo spettacolo, il ruolo dell’arte all’interno del nucleo sociale a cui apparteniamo, come frequentatori di un teatro di nicchia e cittadini del mondo:“L’arte deve essere popolare?”. Si chiede che senso abbia la “provocazione” a teatro quando perde il suo effetto perché è già nell’orizzonte di attesa dello spettatore, e cosa sia davvero provocatorio oggi. A ognuno di noi è lasciata la possibilità di rispondere, anche se spesso la domanda è retorica. Nel suo rifiuto totale ed esplicito della narrazione, lo spettacolo è provocatorio. Devo ammettere che mi sono sentita a disagio, un disagio vitale che non provavo da tempo. L’operazione di “castrazione” non coinvolge solo lo spettatore ma anche l’artista, da tutte e due le parti il desiderio di spettacolo è frustato e lasciato insoddisfatto. E se questo è successo perché sono capitata in una serata in cui il meccanismo dell’improvvisazione si è inceppato, sono felice che ciò sia accaduto, che lo scheletro si sia mostrato.
Il nichilismo con cui Andrea Cosentino sembra rispondere alla richiesta di speranza rivoluzionaria postulata dalle domande del mendicante, è un nichilismo ironico e l’ironia è “uno specchio d’acqua gelata”. Allora sappiamo che le risposte che Andrea Cosentino uomo/artista darebbe non sono nichiliste, né di nicchia.

C’è un’urgenza nello spettacolo che risulta evidente anche nello scarto apprezzabile tra l’idea e la sua realizzazione scenica, come nei suoi ultimi spettacoli, anche in questo, il senso veicolato e sentito assume un valore talmente preponderante da giustificare una messa in scena a tratti incompleta o in equilibrio su di un filo, sorretta dalla coerenza con cui Andrea Cosentino traccia il suo cammino attraverso la scena. Mi sembra che questo non-finito faccia parte di una formula speciale di narrazione che caratterizza la sua autorialità, che non sia dovuto a fatti contingentali (tipo: è l‘inizio di uno spettacolo a venire), né a carenze nella formalizzazione. Questo stato di perfezionabilità è una costante negli spettacoli dell’autore-attore ed è forse anche una scelta che fa riferimento all’essere sempre in fieri tipico dello studio come stato permanente, che prevede un inizio ma non una formalizzazione finale.
I suoi spettacoli giocano sempre sull’asse di equilibrio, lasciando uno spazio vuoto e diffuso di imperfezione, incompletezza, un varco lasciato aperto al dubbio e alla domanda: questo è il vero senso critico, di chi sa che la realtà è sempre aldilà del poter essere definita e che ogni traguardo non è mai l’ultimo.

Chiara Pirri

Vai all’articolo di presentazione per info su cast e date in cui è andato in scena

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7 COMMENTS

  1. Da spettatore e lettore: che Cosentino sia un artista bravo e intelligente, è risaputo, ma se c’è uno “scarto apprezzabile tra l’idea e la sua realizzazione scenica”, ovvero tra ciò che Cosentino si proponeva e ciò che lo spettatore vede, non sarebbe più proficuo interrogarsi su cosa abbia prodotto questo scarto?

    • Io non credo che ciò “sia successo”, bensì che sia frutto di una scelta dovuta all’urgenza attraverso cui Andrea Cosentino affronta la scena e dunque il teatro. Come scrivo già nell’articolo (so di non essere molto chiara a volte), il bisogno di dire, ma soprattutto di chiedere a sè a a chi vede e ascolta, il bisogno di ricerca, che caratterizza l’autore-attore, travalica quello della forma ed è tale da poter essere contenuto solo in una forma forte ma non categorica. La struttura dello spettacolo è chiara: un inizio di esposizione, una parte centrale di argomentazione ed un finale (molto bello, tratto da Kafka) che accenna una possibile risposta(?). Ma all’interno di questa struttura c’è spazio per l’improvvisazione, sia come pratica attoriale che come scelta di pensiero.
      Grazie dello spunto di riflessione

      Chiara Pirri

  2. A me invece è capitata una prima fortunata, in cui manichini (s)cadenti hanno favorito una bella improvvisazione. Nonostante anch’io abbia scritto dello spettacolo più che positivamente, non sono d’accordo con Chiara su due questioni. La prima è che secondo me non siamo davanti a un “nichilismo che faccia da incipit per un nuovo inizio”: considerando il percorso stilistico di Cosentino, mi sembra che questi Esercizi siano come il parossismo di quanto già in precedenza si era messo in gioco. Decostruzione del linguaggio, però vitale, attraverso uno smascheramento che è sì negazione, ma anche affermazione dell’infinita possibilità: ecco, secondo me gli Esercizi amplificano e proiettano questo discorso a largo raggio, portandoselo dietro fino allo sguardo dell’infanzia e al non-sguardo dell’immaginazione incompiuta, del “vuoto che anticipa la creazione” di cui più volte ho letto a riguardo di questo lavoro. Fondamentalmente, credo che se Cosentino, dopo questo spettacolo, decidesse di continuare ancora lo stesso percorso drammaturgico e formale, rischierebbe con facilità di ripetersi. Sarei curioso (e lo diceva anche un articolo su “Pane e acqua”) di vedere cosa succederebbe se, quasi per costrizione, come un compitino per casa, Cosentino ora iniziasse a tentare la “costruzione”. Vengo alla seconda questione, che poi ho già accennato. Secondo me lo “scarto tra l’idea e la realizzazione scenica” in questo caso sta proprio nella ripetitività. In fondo, per quanto istrionico sia sempre il protagonista, e intelligente, e bravo, questo spettacolo insisteva su degli stilemi già visti: è vero che forse si trattava di autocitazioni ironiche, ma mi sembra che qualche gesto (lo sbattere la testa sul microfono, la risatina dopo i finti incipit) fosse troppo inflazionato, anche se sicuramente si potrà dire che anche ciò faceva parte a sua volta della decostruzione e dell’ironia…

  3. Non so, bel pezzo, bei commenti e bello il lavoro che li ha generati, io se una critica, o una riflessione posso fare, è quella che l’incipit col mendicante (molto bello e autoconclusivo, anche se collegato tematicamente al resto del lavoro) e la chiusa Kafkiana (bella e collegata tematicamente col lavoro) orientano fin troppo l’orizzonte d’attesa e interpretativo dello spettatore in direzione della riflessione sullo stato dell’arte, sulla situazione dell’artista, sulle contraddizioni e i vicoli ciechi di un mestiere e di un ambiente ristretto che parla troppo a se stesso, il metateatro etc.
    Tutto questo nello spettacolo c’è, ed esplicito, e torna anche nella parte centrale. è tutto molto interessante e chiaro, secondo me anche fin troppo. Sarà un limite mentale mio il non riuscire a immaginare i limiti mentali degli altri ma la domanda ricorrente, sempre più ricorrente in questi ultimi anni e non solo a proposito degli spettacoli di Cosentino (anche se l’ho sentita dire da un tipo anche ieri sera a proposito di Cosentino), che sento ogni tanto tra le labbra di alcuni spettatori “Ma dove va a parare?”, mi fa cadere ogni volta più le braccia.
    Si capisce senza dubbi all’istante dove va a parare!
    E comunque il motivo per cui sono intervenuto è semplicemente per contestare il discorso di Michele Ortore sul ripetersi, l’inflazionamento etc, ma anche sulla costruzione eccetera. Bisogna essere certo consapevoli nella gestione del proprio “personaggio”, giocando tra caratteristiche riconoscibili che devono esser tali, predilezioni, potenzialità, scarti dal già fatto, limiti che ti impongono più di tanto in là di non poter andare, desiderio di rinnovarsi ma anche conferme identitarie che ti chiede lo pseudo mercato del teatro italiano eccetera.
    Andrea ne è perfettamente consapevole, e nello spettacolo è evidente, come era evidente in tutti gli ultimi lavori una tendenza progressiva fino a questo lavoro, soprattutto alla sua parte centrale, che vi piace chiamare distruttiva, come se non fosse piena di ogni senso, quella, chiamiamola così, distruzione.
    Io penso che le cose vadano analizzate prima di tutto nel senso che hanno in se stesse, se ne hanno, poi nel percorso dell’artista.
    Le nostre sensazioni rispetto al ripetersi o meno di determinati stilemi di linguaggio, già visti e bla bla bla, sono solo bla bla bla.
    Altrimenti avremmo dovuto nemmeno più considerare i babilonia già tre spettacoli fa. E invece, certo, magari si ripetono, ma poi un loro spettacolo può essere sensato o insensato a prescindere da quanto si ripetano. E poi tutto si ripete. Forse che, che so, i libri di Eco non si ripetano? O i film di Pasolini? O quelli di Lynch? O gli spettacoli di Rezza? O l’utilizzo dello xilofono nei dischi di Zappa? O eccetera? Il “già visto” è un problema, e ogni artista lo tiene un po’ presente, ma è anche uno tra i più falsi dei problemi. Si lavora per nuove aggregazioni del già visto. Tutti. Con lente progressioni. Si può pretendere il senso, il pensiero, la qualità di quel che si fa, la sua aderenza al presente, non che si inventino sorprese per convincere chi ha già visto tutti gli spettacoli passati che si stia facendo un prodotto di consumo nuovo da acquistare. Se no saremmo niente più della nuova Renault Clio. Invece si è sempre prodotti, il proprio lavoro è merce di consumo per gli spettatori che ci guardano, ma si è anche qualcosa che tenta di essere anche qualcos’altro che prorompa dalla scatoletta della propria confezione, che ecceda il proprio destino di merce di consumo culturale di un’elite di pseudo intellettuali e di studenti.
    Ciao a tutti, e scusate il quarto d’ora di Hybris, se potete.

  4. Però! Quando leggo un commento come quello di Daniele qui sopra si rinnova la voglia di intervento. Lo ringrazio.
    Vorrei porre l’attenzione su quest’ultimo discorso della ripetizione, perchè c’è un forte pericolo interamente connaturato al cadente sistema teatro: questa ricerca affannata del ” nuovo”, dell’originale, ha prodotto in questi anni una forte virata verso la spettacolarizzazione della materia teatrale, confinando l’arte ancora di più nella casella dell’intrattenimento, fuori dal valore culturale. E’ a questo proposito che considero invece valore non la ripetizione ma quella che amo chiamare “riconoscibilità”, perchè la trovo un segno fortissimo di resistenza di chi crede nella materia che tratta, e soprattutto fiducia nella crescita di uno stile, parola fuori moda ma che credo sia la chiave per lasciare lo stagno e riprendere il mare largo.

  5. Ciao Daniele, e prima di tutto grazie del contro-commento, ché in realtà perdere un quarto d’ora a rispondere a uno sconosciuto (tuo spettatore!) non è cosa poi così piena di Hybris 🙂
    Riguardo alle ripetizioni contingenti allo spettacolo, di cui avevo fatto un paio d’esempi, sono consapevole che le mie non erano nulla più di sensazioni, legate comunque al primo commento, in cui ci si chiedeva quale fosse lo scarto tra l’idea di questo lavoro e la sua realizzazione. Sul discorso più generale, invece, non volevo certo criticare il concetto stesso di ripetitività nel percorso di un artista, dell’arte o del teatro: sono d’accordo con tutto quello che scrivi (così come sulla “riconoscibilità” di cui parla Nebbia), penso anch’io che quasi (ma non) tutto stia nella dialettica tra norma e scarto, sia rispetto alla tradizione generale che a quella personale, e che il gusto aprioristico per la novità sia sterile. Però, se la sensatezza o meno di ogni spettacolo fa storia a sé, è anche vero che l’intenzione e l’urgenza di un lavoro possono essere valutati con molta più profondità attraverso il confronto con il già detto e il già fatto. Quindi è solo in questo contesto, ovvero quello degli ultimissimi lavori di Cosentino, che la ripetitività mi sembra un rischio. Anche tu, mi sembra di capire, sei d’accordo nel vedere in “Esercizi di rianimazione” qualcosa di simile al compimento di una tendenza già presente…e allora si è raggiunto un momento in cui, come spettatore, mi aspetto una svolta. E’ come se dopo il Rosso, il Bianco e il Blu a Kieslowski venisse voglia di aggiungere un altro colore alla bandiera francese! Forse il termine più giusto potrebbe essere “prevedibilità”, che in parte può essere uno strumento, un buon modo di stabilire subito il legame con il pubblico, ma dall’altra non deve impedirmi la sensazione di aver fatto un passo in più, aver aggiunto un tassello indispensabile. Lo spettacolo dell’altra sera non è stato prevedibile, però è come se Cosentino fosse salito sul filo e ora facesse il funambolo. Sono curioso di vedere quanto riuscirà a resistere alla tentazione dell’ “identità”, quell’identità che può stare anche nell’iconoclastia (non per usare il parolone, ma pensando agli ICCP) e rende molto più difficile mettersi in discussione. E’ forse il rischio principale di quel confronto con sé stessi e i propri personaggi, di cui indubbiamente sai più di me…Poi ovviamente il mio è un discorso che risente di opinioni più generali: definire “distruzione” o meno il lavoro di Cosentino sul linguaggio non è cosa da poco! Grazie ancora e a presto.

  6. “Il critico ci insegna a pensare: riconoscenti, vorremmo insegnargli a nostra volta qualcosa. Impossibile: sa già tutto.”

    Paul Gauguin; “Chiacchiere di un imbrattatele”, ed.Abscondita,p.22, Milano 2001

    “Parlare con intelligenza dell’arte non è difficile, perchè le parole proprie dei critici sono state impiegate in accezioni così diverse da perdere ogni precisione”

    Sir E.H.Gombrich; “La storia dell’arte”,ed.Phaidon,p. 35, New York 2010

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