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Ricci/Forte – volti angelici per un Natale underground (molto molto trendy)

ricci/forte some disordered christmas interior geometries foto Lucia Puricelli

Sono uno dei gruppi più seguiti nel panorama del teatro sperimentale (e non) italiano. Vantano quindici anni di carriera e un successo arrivato improvvisamente attraverso lo scandaloso Macadamia Nut Brittle. Li chiamano enfant terrible, ma infanti non lo sono più da un pezzo. I loro spettacoli sono gremiti di pubblico, le loro performance (spesso replicate più volte al giorno e protratte fino a notte fonda) sono quasi sempre sold out. La comunità GLBT li adora (e d’altronde è il loro target privilegiato di riferimento) ma tra i loro spettatori contano anche signore impellicciate e impreziositi esponenti della società medio e alto borghese. Stefano Ricci e Gianni Forte, alias Ricci/Forte, registi, drammaturghi, artisti, occupano dall’8 al 15 Dicembre 2010 la meravigliosa Fondazione Alda Fendi di Roma con la performance/site-specific Some Disordered Christmas Interior Geometries. Uno spettacolo nato per desiderio della stessa fondazione privata che sceglie di festeggiare le vacanze natalizie donando gratuitamente al pubblico questo evento artistico costruito ad hoc per Il Silos – una delle sedi della fondazione – corrispondente ad una porzione della basilica Ulpia, gioiello del Foro Traiano.
In questo spazio, cinquanta spettatori alla volta, previa prenotazione, sono invitati ad entrare nell’universo teatrale costruito dalla compagnia, accolti da un’infermiera che seduta all’interno di una vera ambulanza detiene il controllo della lista d’attesa. Il primo passo verso l’interno del Silos appare come la discesa in un inferno algido e asettico. Black Light (le famose luci UV dal colore violetto) illuminano i volti degli spettatori mentre undici performer (Anna Gualdo, Andrea Pizzalis, Anna Terio, Barbara Caridi, Elisa Menchicchi, Fabio Gomiero, Giuseppe Sartori, Marco Angelilli, Valentina Beotti, Valerio Sirna, Velia Esposito), vestiti rigorosamente da infermiere sexy camminano lentamente nello spazio tenendosi in equilibrio sui loro tacchi a spillo. Focalizzato, il paesaggio infernale si rilassa immediatamente nell’atmosfera di un ironico party da nightclub omosex in cui drag king e go-go girl, si aggirano tra gli spettatori con vassoi d’argento per distribuire bicchieri di bianco latte (simbolo di un ritorno ai sogni e all’ingenuità dell’infanzia), sussurrare all’orecchio piccole frasi («grazie per essere venuto») o far specchiare gli spettatori negli stessi vassoi. Un canto natalizio ecclesiale fa da eco alla scena, immediatamente seguito da un commerciale jingle televisivo. Poi una musica inquietante interrompe l’azione meccanica e come burattini gli attori si lanciano a terra cercando una prossimità (o un’irreale promiscuità) con il pubblico.

Ricci Forte – some disordered christmas interiors geometries (foto di Daniele + Virginia Antonelli)

Gli attori si alzano, prendono con loro piccoli gruppi di spettatori e, cercando continuamente un contatto, raccontano velocemente piccoli stralci della loro vita – natalizie riunioni familiari, regali, tavolate, parenti, amici, zii, solitudini, gioie, lettere a Babbo Natale -, mentre tra istallazioni, video e fotografie continua la rapida discesa in questo inferno. Ed ecco il suo ultimo girone apparire improvvisamente in una delle sale più belle del Silos – rimasuglio di una disfatta cultura occidentale, bellezza ancestrale in forma di rovina – plasmata ed illuminata con luci blu e fucsia come il cuore pulsante (di denaro) nella notte più cool del Muccassasina (celebre party gay romano). Disposti su una sorta di basso ponte che si affaccia sui reperti archeologici, gli spettatori assistono alla fase finale della performance. Microfoni sullo sfondo, carta da regalo, forbici, nastrini e carta adesiva per terra. Un’attrice cammina lentamente nello spazio scenico, raggiunge un microfono, qui con voce sofferente continua il suo racconto, improvvisamente tinto da sfumature macabre, morte, malattia. Piccole flebo piene di latte pendono dall’alto, mentre sulla sinistra, ancora sul ponte che circonda lo spazio scenico, i restanti attori si dimenano, premono i loro corpi contro le pareti trasparenti della struttura, coprono i propri volti con la loro stessa riproduzione fotografica e la lasciano oscillare, come in un mare in tempesta, scambiandoseli vicendevolmente. Entrati anch’essi nello spazio scenico, si abbandonano ad una veloce esposizione corporea, tra impacchettamenti e spacchettamenti con carta da regalo dorata e nastrini rosa. Mentre il testo elenca gli infiniti aspetti commerciali del Natale, analizza l’ipocrisia della società borghese, sofferente, un performer giunge al centro della scena, apre una flebo, si fa cadere il latte addosso, quindi, singhiozzando, si lascia leccare da due attori. Nuovamente preso per mano, il pubblico è libero di tornare in superficie, salutato dai performer piangenti, che con viso angelico stravolto da un ghigno-sorriso, mostrano i loro bianchi denti.

Cultura queer, immaginario pop e riferimenti colti (corpi e spazi plasmati come sculture di Rodin, fotografie in stile Woodman, video istallazioni degne del miglior Ataman e un natale alla Dickens in salsa Dennis Cooper), si mescolano nella scrittura scenica postmoderna di Ricci/Forte che tentano, ancora una volta, di costruire una tragedia contemporanea ancorandosi a quel concetto di destrutturazione (che della postmodernità è carburante) utilizzato per attaccare la società borghese ed infine fagocitato da essa stessa.
Il duo di registi/drammaturghi saccheggia le estetiche dei movimenti artistici più rivoluzionari del Novecento (dall’arte visiva al teatro, dal cinema alla letteratura per arrivare alla moda) mescolandoli in un enorme calderone e ricostruendoli sotto forma di involucro, di vuota superficie. Un meccanismo simile a quello innescato dalla pop star Lady Gaga ma senza la sua rigorosa e meravigliosa coerenza. Qui ci si ritrova dinanzi ad una sorta di Tony Kushner (autore di Angels in America e simbolo della postmodernità teatrale americana) schizofrenico, che se da un lato tenta di ringiovanire in un’iperbole di prodezze kitsch ancorate a violenza e atti sessuali espliciti, dall’altro mostra la sua più indecente vecchiaia, perdendo di mano la consapevolezza di tale linguaggio e precipitando nel puro trash. Perché nella babele di segni svuotati e riempiti di plastica costruita da Ricci/Forte, anche lì dove il linguaggio utilizzato è lo stesso che si vuole criticare, c’è sempre e comunque il tarlo. C’è quel verme che rode l’universo creato svelandone l’imbarazzante finzione (che nulla ha a che vedere con lo straniamento brechtiano) e privandolo della sua funzione estatica. Ecco corpi e volti alla Pierre&Gille che cadono fingendo di cadere, che piangono fingendo di piangere, che mostrano il proprio sesso per finti imbarazzi e che, infine, cercano di sorprendere uno spettatore che non vede l’ora di essere sorpreso. Glamour riprodotto, inautentico per un vocabolario queer improvvisamente chic. Tragedia tradotta in farsa omo borghese, emulazione di un John Cameron Mitchell molto poco porcello, per false catarsi, smaltate epifanie e nuovi buonismi. È «il carattere virtualmente illimitato raggiunto oggi dalla capacità assimilatrice dell’apparato borghese» messo in luce da Walter Benjamin; un apparato in grado «di assimilare e persino di rendere noto un numero sorprendente di temi rivoluzionari senza con questo gettare il dubbio sulla propria base o sulla base della classe che lo controlla».
Pensando ai visi angelici e anticapitalistici delle disordinate geometrie natalizie di Ricci/Forte, mentre stapperemo il nostro spumante la notte di Natale o di capodanno, potremmo sentirci tutti più buoni e veramente “cool” per aver smascherato l’orrenda ipocrisia del sistema occidentale. Cin cin.

Matteo Antonaci

Su questo evento leggi anche l’intervista a Ricci/Forte

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10 COMMENTS

  1. cerca in vita una scrittura più semplice e meno articolata afforz ( dicono in puglia). secondo me non hai capito niente. fare il critico è una grossa responsabilità. sappilo.

    • Gentile Matteo,

      considero le divergenze di sguardo quanto di più prezioso e utile dinanzi alle complessità della contemporaneità. Il confronto non può che essere positivo. Eppure la tua critica non sembra aprirsi ad una possibilità di scambio. Cade come una sentenza amputata delle sue motivazioni. Hai ragione! Scrivere è una grossa responsabilità! Ognuno di noi ne è consapevole non solo nel momento in cui esprime le proprie idee, ma anche nel momento in cui sceglie il linguaggio e la forma con cui esporle. Mi auguro che il mio giudizio su questo spettacolo (come su qualunque spettacolo) non cada come una sentenza ma come una riflessione nata dopo una visione (della quale mi pare si faccia resoconto), da alcune motivazioni (che qui ho provato ad argomentare) e da tutte quelle suggestioni ancorate al percorso storico/artistico in cui, inevitabilmente, ogni spettacolo si inserisce. Tutto ciò, purtroppo, manca nel tuo commento! Pertanto non posso far altro che ringraziarti per l‘attenzione.
      Cordiali saluti.

      Matteo Antonaci

  2. “chi non puzza di bomba cotta e vertigine compressa non è degno di essere vivo”…

    questo dovrebbe saltare all’occhio e al “cuore” quando vedi una cosa ocme quella che abbiamo visto al silos…
    io davvero non capisco perchè sia necessario dover ricondurre il lavoro di due artisti a certi stilemi come il vocabolario queer…la cultura “omesessuale” o a certe forme d’arte moderecce e assassine…
    il linguaggio è frutto di tali e tante commistioni di generi che ci vuole una determinazione da chirurgo e infettivologo per dover far saltare fuori tutti questi riferimenti e basarci tutto un articolo di critica …
    non so…mi deprimo quando leggo questi articoli…non perhcè siano scritti male..affatto..ma perchè trascurano delibetratamente ciò che rende il teatro e l’arte qualcosa di vivo…il linguaggio per esempio…che è vivo appunto e non un involucro vuoto da riempire di senso con riferimenti colti e imprecisi…
    scusate lo sfogo.
    flavia

  3. caro matteo,

    io davvero non ho capito molto di quello che hai scritto, oltre a descrivermi lo spettacolo non ho capito se ti sia piaciuto o meno, se mi consiglieresti di vederlo o no… allora mi chiedo sinceramente quale sia il tuo ruolo.. non dovresti farti ponte tra spettacolo e pubblico per facilitare la comprensione del lavoro? non dovresti guidare indirizzare o al limite consigliare o sconsigliare la visione?

    mi sembra piuttosto che tendi a complicare il tutto, a vivisezionare il lavoro infarcendolo di rimandi e richiami, come se dovessi dimostrare di saperne abbastanza per essere autorizzato a scrivere, ma così facendo mi sembra che si perda il senso dell’articolo.

    la tua scrittura mi fa pensare che tu sia molto giovane, o sbaglio?

    kiara

    • Gentilissima Chiara,

      perché concludi la tua critica volgendola su un inutile cenno biografico che riguarda, eventualmente, la mia vita? L’attendibilità della critica dipende dall’età di chi la fa?
      Sono contento che qualcuno metta in evidenza la problematica del ruolo della critica oggi. Considerando le mie modalità di scrittura e partendo dal mio punto di vista, ti rispondo in tutta sincerità! Non credo che il mio ruolo sia quello di consigliare o sconsigliare uno spettacolo. Peccherei di egoismo e di presunzione se dicessi: “questo spettacolo è da vedere” oppure “questo spettacolo non è da vedere”. Credo, piuttosto, che il ruolo fondamentale della critica oggi sia quello di parlare di estetica. Che il ruolo del critico sia quello di moltiplicare lo sguardo, individuare percorsi di lettura (condivisibili e non condivisibili) ma anche contestualizzare un’opera nelle correnti storiche, artistiche, estetiche e filosofiche nelle quali, inevitabilmente, si inserisce. I rimandi di cui parli, a mio parere, non sono semplici infarcimenti per la mia scrittura ma parte integrante dell’opera analizzata. Il mio personale giudizio sullo spettacolo di Ricci/Forte credo fuoriesca dal mio articolo, pertanto non vi ritornerò su. Ringrazio anche te per l’attenzione e spero di aver risposto con queste righe (almeno in parte) al commento di Flavia.
      Cordiali saluti.

  4. Perdonate l’intrusione,
    non scrivo per entrare nell’interessante dibattito che avete creato, ma solo per farvi notare qualche regola necessaria affinché tutti possano non solo esprimersi, ma anche leggere i vostri commenti in maniera facile e veloce.

    Il prossimo commento che leggerete è molto lungo (non siamo qui a valutarne il contenuto), per questo ho l’obbligo di farvi notare che questa parte della nostra rivista non è un angolo dove proporre recensioni, saggi o romanzi brevi (soprattutto senza avere prima un contatto con la redazione), ma è un luogo di discussione.

    Guardate a ogni vostro commento come a un intervento all’interno di un dibattito: se parlate per 2 ore non è detto che facciate una figura migliore. Certo il pensiero ha una durata relativa per ognuno, ogni persona ha un tempo di elaborazione e chiarificazione diverso dagli atri, ma non possiamo di certo ridurre lo spazio degli altri per il nostro piacere o bisogno.

    Vi preghiamo perciò, per il futuro, di contattarci prima se volete pubblicare “commenti” come questo, o di capire a priori in maniera autonoma quando è il caso di contenersi.

    grazie

    Andrea Pocosgnich

  5. SOME DISORDERED CHRISTMAS INTERIOR GEOMETRIES
    OVVERO IL DONO E IL SUO SCARTO

    Caro Gesù Bambino,
    quest’anno a scuola ci hanno insegnato che in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti.
    La mamma dice che devo imparare la geometria se voglio che Babbo Natale mi porti i regali, ma siccome verrà sicuramente a sapere da quella spiona della maestra che io di geometria non capisco proprio niente, io scrivo a te, che sei più buono e bambino come me.

    Caro Gesù Bambino,
    tu sei bravo in geometria? Secondo me sei bravissimo, e infatti anche i Re Magi ti hanno portato i doni, e ogni anno ne ricevi talmente tanti che il giorno del tuo compleanno tutti quanti si scambiano i regali.
    Anzi, ora che ci penso bene tu sei l’unico bambino che quando è Natale non riceve doni, da quella volta che te li hanno portati quei tre – e tra l’altro era il giorno della Befana! In più ti tocca vedere tutta la gente scartare pacchi e pacchetti e farsi gli auguri per la tua festa! Un po’ mi dispiace per te, non deve essere facile, però in fondo è colpa tua: quando ti sei messo in testa di resuscitare, hai disordinato la morte, così non hai più smesso di nascere ogni anno, festeggiando il compleanno all’infinito.

    Caro Gesù Bambino,
    mi sa che nemmeno tu hai le idee chiare sulla geometria, e forse questa storia del Natale che va avanti da così tanti anni dipende proprio da questo disordine tra la vita e la morte che hai fatto nascendo, poi morendo, e poi nascendo di nuovo.
    Forse è il caso di ripassare un po’ di geometria insieme, e vedere se si riesce a capire come si fa a costruire quell’accidenti di quadrato sull’ipotenusa! Per quale motivo, poi, dovrei costruire un quadrato su un triangolo? Secondo me chi ha inventato la geometria aveva le idee un po’ confuse, disordinate.

    Caro Gesù Bambino,
    Pensa quanto sarebbe bello se esistesse un posto dove curano quelli che non capiscono la geometria! Quest’anno a Natale, invece di andare a messa a mezzanotte, andrò nell’ospedale per quelli come me, che non capiscono che senso abbia questa disordinata geometria. All’inizio, per via dell’abitudine, mi sembrerà di entrare in chiesa, mi sembrerà addirittura di sentire qualche nota di musica sacra, ma subito vedrei tanti infermieri venirmi incontro. Credo che scoprirò di non essere lì da solo, perché sono convinto che tanti abbiano dei problemi con questa geometria. Sarei in buona compagnia in quell’ospedale, che sarebbe illuminato al neon, tanto da far sembrare dei fantasmi lucenti, come delle nivee anime in pena, quegli infermieri solerti e taciturni nelle loro divise bianco latte.
    Infatti sarebbe bello se in quest’ospedale per chi ha disturbi geometrici gli infermieri ti accogliessero un po’ come dei camerieri e ti offrissero del latte da bere, un bel bicchiere di latte ad ognuno dei pazienti. Certo, questi dovranno essere assai pazienti, perché se uno va in un ospedale e gli portano il latte invece che la morfina, c’è il rischio che si spazientisca come uno che va a teatro e non sa dove e cosa guardare perché manca la tenda del sipario: capisco che scena significa proprio tenda, ma che ogni cosa debba dipendere dalla messa in scena per essere uno spettacolo o qualcosa da guardare, è forse prendere troppo alla lettera certe burle etimologiche!
    E così, noi pazienti spettatori, diffidenti o scettici, divertiti o spaesati, che ci troviamo in scena senza vederla o localizzarla – in preda ad una topologia atopica che conturba lo spazio e il suo sguardo – tutti noi numerosi pazienti di quest’ospedale non capiremmo perché degli infermieri ci stiano offrendo del latte. Anzi, all’inizio neanche capiremmo che si tratta di latte, ma poi basterebbe odorarlo, qualcuno avrà anche il coraggio di berlo: è chiaro che si tratta di latte, anche se resta un mistero il perché ci venga offerto per Natale in questo nosocomio per disturbi geometrici.

    Caro Gesù Bambino,
    tu bevevi il latte quando eri bambino? La tua vergine mamma ti ha mai allattato? O forse il bue che c’era nella tua grotta era in realtà una bella vacca grassa, e tu suggevi dalla sua mammella per irrobustirti? Forse avresti dovuto berne di più, o forse di meno, se è stato quello che ti ha fatto venire in mente di disordinare la vecchia geometria tra vita e morte, risorgere e restare condannato a festeggiare il Natale all’infinito…
    Insomma, quel latte resterebbe un mistero, come quando dicono, dopo aver alzato un calice di-vino: mistero della fede. Anche in questo caso ce la danno a bere! Perciò c’è poco da fare, “beviamo più latte, il latte fa bene”, senza starci troppo a pensare.
    D’altra parte potrebbe anche essere una pozione magica, oppure semplicemente una medicina, la parola che ha sostituito tutte le pozioni di una volta, insomma un analgesico, un anestetizzante, qualcosa che sconvolge la percezione e la comprensione della realtà. Come in ogni ospedale che si rispetti, la prima cosa da fare è interiorizzare il dolore, ovvero approfondirne la percezione, nel senso di respingerla nella dimensione più profonda del malato, affinché questo possa essere operato.

    Caro Gesù Bambino,
    ogni operazione ha bisogno che la parte insana venga manipolata, ed ogni manipolazione è un’infiltrazione, penetrare in una zona buia. Nel nostro caso la zona buia sarebbe questa disordinata comprensione della geometria, e siccome pare che la geo-metria sia la scienza dello spazio, della terra cioè del mondo, il nostro mondo, significa che non riusciamo proprio a capire niente di tutto questo se ci è stato necessario un internamento in ospedale. Mi sa che la geometria è molto di più di quella sciocca litania che ci fa imparare la maestra, così come questa chiesa-ospedale è molto di più di una chiesa o di un ospedale!
    È dello spazio esterno che non comprendiamo niente, ignoranti geometri che non siamo altro. Se è così, dobbiamo scoprire se per caso non sia malato lo spazio interno, e per far questo è necessaria un’operazione, come uno scavare nei recessi di qualcosa che sia pur sempre teso tra l’interno e l’esterno, tanto da disordinarne i confini: operare i corpi, sui corpi, nei corpi – sarà per questa loro, cioè nostra, innata giurisdizione s-confinata, senza confini, che non riusciamo a misurare, pesare, pensare niente come dicono che si dovrebbe?
    Sia chiaro, si manipoleranno i corpi perché soltanto i corpi hanno uno spessore esterno, tale da avere un’intimità, un’interiorità. Che poi questa la si chiami anima, è una scelta ridondante, deviante, che ci rende deviati insomma. L’interiorità è pur sempre qualcosa che riguarda il corpo, ed è avendo riguardo per il corpo che si può penetrare nel disordine interiore di questi nascenti misuratori dello spazio, i corpi, i nostri, some disordered christmas interior geometries: corpi che, disordinatamente, a Natale, festeggiano il loro venire al mondo, il loro spaziarsi, la loro nascita innata: nasco, dunque sono…un corpo.

    Caro Gesù Bambino,
    dobbiamo operare sui corpi, perché per un qualche misterioso motivo, sebbene nati per essere corpi, ontologici misuratori dello spazio, non sappiamo niente di geometria, non sappiamo stare al mondo, non sappiamo essere corpi senza essere geometricamente disordinati, contraddizione in termini, giudizio analitico a priori pervertito: i corpi non sono estesi, distesi, con buona pace di Kant.
    Ed ecco comparire i corpi: un sorso di latte e quegli infermieri atipici, atopici, si trasformano, dando luogo ad una strana epifania – strana, perché Natale non è l’Epifania, ma un tempo era solo all’Epifania che si scartavano i regali, fino a quando il Natale, dono di un corpo, non è diventato nient’altro che una moltitudine indistinta di doni ammassati, doni accorpati, doni scartati – come se potesse essere l’una senza essere pure l’altra cosa e viceversa!

    Caro Gesù Bambino,
    ecco che si manifestano dei corpi convulsi, tormentati da spasmi – epilessia natalizio-epifanica. Pensa se in quest’ospedale gli infermieri diventassero soltanto questi isterici corpi e poi iniziassero a parlare. Noi, guidati dai loro – o dai nostri? – racconti d’infanzia, inizieremmo a scavare nel mistero del Natale: saremmo condotti in una grotta fatta di antiche attonite rovine, lungo un’aneddotica direzionale e speleologica, nutrita da ancestrali banchetti natalizi, quelli consumati in attesa di mezzanotte, quando da bambini si aspetta la Nascita, e la si festeggia scartando i regali, attraverso una rievocazione itinerante, per corridoi di corpi inespressi, ovvero volti inespressivi.

    Caro Gesù Bambino,
    verremmo condotti in una grotta, al freddo e al gelo, e qui: sorpresa! Ci sei già stato tu! Ci hai preceduti tutti. Pare che anche tu abbia già scavato nel disordine geometrico di un corpo: senza dimostrare alcun teorema, hai dimostrato – e che rivelazione! – che essere corpo non significa soltanto nascere, né soltanto morire, ma pervertire continuamente questa logica duale, non perché, come pensano alcuni, saremo salvi e tanti saluti, ma perché ogni corpo che nasce si condanna ad un’esibizione mortale, davvero un calvario, che tanto lo fa essere dono quanto pacco regalo – e questa è la cifra della nostra inquietante libertà!
    Raggiungeremmo la grotta dello spettacolo – nel ventre di uno spettacolo grottesco – e qui i corpi si moltiplicherebbero perché i loro volti si mischierebbero fino all’indistinzione, come a dire che un corpo vale l’altro, siamo tutti uguali, e in fondo l’universalità dei diritti umani passa per una sconcia nudità inespressiva eppure tanto toccante – e si sa, solo un corpo può toccare! Questi corpi tenterebbero di scappare a se stessi, ma oltre se stessi ci sarebbero ancora loro, solo più spaventosi, come lucertole o serpenti con corpi umani.

    Caro Gesù Bambino,
    tu hai mai scritto una lettera a Babbo Natale quando eri bambino?
    Che regalo possono chiedergli quelli come te e noi che, proprio perché nasciamo corpi, non smettiamo di esserlo un solo istante, anche quando, essendo morti, saremo corpi…che non ci sono più? Cosa possiamo chiedere come dono a Babbo Natale, noi che siamo corpi fino alla fine, noi che siamo incartati in questo dono natalizio, senza via di scampo, massa – o messa – di doni accorpati e scartati? Niente. Non possiamo chiedergli niente, perché siamo noi stessi il dono, o il pacco regalo. Ed in questa grottesca teologia la nascita (o Natale) avviene all’ora del decesso, “23.59”, perché nascita e morte sono insieme una moltitudine di corpi divorati da se stessi, una moltitudine che infinitamente risorge in un’orgia di speranza disperata, demografie scellerate, ora consumate dal feticismo delle merci, ora affamate dalla fame nel mondo: questo sono i corpi, questo è Natale (o nascere), accorpare il dono e il suo scarto.
    I corpi, tutti insieme, compongono anzi confezionano una geometria interiormente disturbata: non può essere altrimenti. Non che di questo si esulti, tutt’altro – sebbene un fremito di straziante commozione possa sembrare simile ad un attimo di gioia, quando la grotta inizia ad essere pervasa di musica. Nessuno quaggiù, in questa grotta, in questa terra, nel ventre della terra, nelle interiora di Dio, nessuno esulta, perché tutti presentiamo disordini geometrici interiori. Ma quaggiù, a Natale, vediamo che tu stesso, caro Gesù Bambino, corpicino minuscolo, corpuscolo divino, sei disordinato quanto noi, tu che in quanto corpo hai disordinato l’ordine impossibile tra vita e morte, tu e noi che in quanto corpi siamo insieme un dono e un pacco regalo.
    Questo Natale, questo di adesso, quello di sempre, è inizio e fine, nascita e morte, l’impero e la sua decadenza, come testimoniano le macerie in questa grotta Romana alla moda. Così è grottesco pure scrivere a Babbo Natale, e riferirgli i nostri mali, ora la lugubre estenuazione per una politica e una cultura volgari che strozzano le parole di un corpo affannato di nome Giuseppe, ora la lacrimosa disperazione virtuale per un’indigenza emotiva singhiozzata da un corpo di nome Anna.

    Caro Gesù Bambino,
    in questa grotta siamo più prossimi alla tua fanciullezza, più prossimi a te, al tuo corpo innocente e martire, e ci viene d’amarti, ci viene da amarci, amare il prossimo nostro come noi stessi. Qui siamo tutti bambini come te, tutti come quello lì di nome Andrea, tutti piccoli pacchetti che si incartano ossessivamente, si impacchettano con cura ed incuria frenetiche per poi scartarsi con angoscia straziante.
    Eccoci, noi consumati da una luccicante ricorrenza che lampeggia sulle tenebre della nostra accorpata moltitudine solitaria, noi confezionati ed affezionati al nostro sbalordimento, noi logorati da un essere corpi che ci fa essere un dono e il suo scarto.
    Hoc est enim corpus meum: non ci rimane che alzare gli occhi a Dio, un Dio che ci ha abbandonati, che ci ha liquidati, in attesa di finire tra i saldi, altri scarti di magazzino. E intanto, tra una liquidazione e l’altra, bere di nuovo quel latte, ormai stalagmitica flebo di un’impossibile felicità, in liquidazione e bagnati di lacrime, sperma e altri disturbi, al gusto di un latte che non c’ha mai fatto crescere, un latte che liquida e scorre su un corpo piangente (di Andrea), il dono e il suo scarto.

    Caro Gesù Bambino,
    Buona Natale!

  6. BONIMELLI BATTE ANTONACI 5 a 0 !!!

    Finalmente un pensiero profondo, un’analisi acuta, una sintassi vigorosa e uno sguardo non banale. E’ un piacere riconoscere un lavoro teatrale al quale si è assistito, affrontato con una capacità di esplorazione (critica, ebbene sì) tanto piacevole e colta. Non avrei saputo cogliere meglio di così le sensazioni che ho provato in quei disordini natalizi.

  7. Ragazzi, grazie per tutto quello che mi date con i vostri spettacoli. Sono pazzo di voi. Siete incredibilmente viscerali, perturbanti, poetici, autoironici, disorientanti sempre. Un lusso oggigiorno a teatro in Italia. Mi sento molto fotunato di poter vorticare nel vostro universo. Ancora grazie.

  8. Al critico,
    vivi complimenti per la tua scrittura e per l’intelligenza con la quale utilizzi il tuo strumento. Ribalti un linguaggio utilizzato dai criticati per farne critica. Il tuo parere è senza dubbio motivato e sostenuto. Complimenti anche per il coraggio dato che non ho ancora letto i commenti (lo farò a breve) ma immagino che siano una serie di insulti più o meno velati dei fans degli “enfants terrible”.

    In bocca al lupo per tutto. F

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