Ci stiamo abituando al compromesso, ci stiamo abituando ad accettare un futuro al ribasso.
“Noi fuori dalle liste, dai concorsi,
dalle carte, dalle curve, dai discorsi,
dalle rotte, dalle risse, dalle caste, dalle eclissi, dai teatri…”.
Con queste parole Davide Auteliano, basso e voce del gruppo rock dei Ministri, molto in voga tra i ventenni e non solo, urla tutta la rabbia dei suoi coetanei nella canzone Noi fuori e lo fa trascinandosi al di là di tutto ciò che gli adulti (politicanti e uomini di potere) hanno avuto a portata di mano e distrutto.
In mezzo c’è anche il teatro. Senza paura di sembrare qualunquisti i Ministri in quella lista della disperazione inseriscono dunque anche la cultura, o comunque un’immagine che di essa un certo teatro potrebbe dare. Ma è il grido di una generazione e forse ci conviene starlo a sentire invece che etichettarlo immediatamente sotto il segno del disimpegno giovanile.
Chiediamoci allora chi e cosa tengono lontani i giovani dai teatri stabili. Questa domanda probabilmente non ha sfiorato neanche di striscio le teste pensanti che hanno scelto di affidare la guida del Teatro di Roma a Gabriele Lavia. Uomo di teatro certo, ma di un’altra scena, regista capace e interessato a leggere i classici (come Dostoevskij e Shakespeare) mettendovi l’uomo con le sue emotività e psicologie al centro, attore dalla tecnica squisita, occhio del ciclone delle sue stesse regie, artigiano dunque di prima classe, mattatore con il proprio pubblico fedele pronto a seguirlo in tutte le sue avventure, ma incapace di creare svolte artistiche determinanti. Se fosse per registi come Lavia il teatro italiano sarebbe rimasto immobile nella sua teca di vetro, pezzo d’antiquariato da museo.
Fortunatamente non è stato così e proprio negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a quel rinnovamento della scena che ci ha permesso di riempire gli spazi ricettivi a questo rinnovamento con nuovo pubblico. Si parla in questi ultimi tempi, anche grazie a una destra sempre “attenta ai bisogni sociali e culturali dei cittadini” di autofinanziamento, aumento degli incassi (questa d’altronde la motivazione che ha portato gli scellerati componenti, per altro anche quelli in quota Pd, del Cda dello Stabile napoletano a silurare brutalmente De Rosa per far posto a De Fusco), insomma si chiede agli Stabili di vendere più biglietti facendo intendere che il Fus di una volta difficilmente tornerà. Ebbene se vogliamo platee e casse piene ci vuole anche innovazione, bisogna avere il coraggio di affidare la scena a coloro che ne hanno rinnovato i linguaggi, quegli artisti diventati icone di un presente, registi, attori, ensemble capaci negli ultimi anni di intercettare proprio le derive postmoderniste, cavalcarle e poi distruggerle (a proposito leggi il saggio di Graziano Graziani). Amministratori e burocrati pensano a costoro come i protagonisti di vuote sale off (che poi vuote non lo sono quasi mai), ricercatori del nulla scenico per tre spettatori alla volta. No, sono quelli chiamati dai festival internazionali, dai teatri europei (vedi il programma del Palladium e del Teatro Valle), sono quei gruppi maggiormente seguiti dai giovani e non sto qui a fare nomi, date un’occhiata alla famosa Generazione T fotografata qualche anno fa da Renato Palazzi, una generazione ormai cresciuta e allargata rispetto a quella prima lista. Un’ondata di artisti capace di rinnovare tanto il segno quanto il contenuto del proprio teatro, mettendolo in crisi e ricreandone tutti i compartimenti. Certo non chiedo alle teste pensanti di affidare il Teatro di Roma a un gruppo di ventenni, anche se almeno le due sale di cintura potrebbe essere una bella prova, ma queste nuovissime leve hanno dei padri (senza indagare le figliazioni estetiche e senza dare un giudizio su quelle scuole) e sono i gruppi che tutt’oggi organizzano e dirigono festival. Romeo Castellucci nel 2005 è stato direttore della Biennale Teatro e tre anni dopo artista associato al Festival D’Avignone, ecco, mi domando se ai nostri amministratori nomi del genere siano mai venuti in mente.
Gian Maria Tosatti nel primo editoriale del nuovo corso de La differenza ragionando proprio sulle possibilità proponeva una triade composta da Ascanio Celestini, Fabrizio Arcuri e Massimiliano Civica. Artisti che hanno avuto (e stanno avendo) un ruolo centrale nello sviluppo delle pratiche sceniche, una penetrazione non indifferente nella città e un’esperienza pluriennale di direzione in tutti e tre i casi. Al tempo di quella presa di posizione forte, importante e condivisibile di Tosatti, Lavia ancora non era nella rosa formata da nomi quali Pietro Carriglio, Maurizio Scaparro, Luca de Fusco e Gigi Proietti (idea quest’ultima giustamente definita “teatro all’amatriciana” da Andrea Porcheddu), intanto erano calate le azioni Barbareschi e si rideva, ma con una certa paura, di ipotesi come Pino Insegno e Lando Buzzanca.
A quei tempi il nome di Gabriele Lavia non circolava quasi mai neanche tra i tentativi più bizzarri. Era stato tenuto ben nascosto? Sembra che la scelta del sessantottenne attore sia opera della Polverini. In che momento alla nostra governatrice è venuta in mente la possibilità Lavia?
Volutamente oppure no, sia che dietro tutto ciò ci fosse stato un meccanismo, dunque un programmato riscaldamento degli animi facendo circolare nomi improbabili che avrebbero reso accettabile invece una via di mezzo, una scelta senza spina dorsale, ma anche nella casualità e buona fede, con la figurina di Lavia nascosta fino all’ultimo e poi spuntata fuori solo perché il mazzetto di carte cade fortunosamente, in entrambi i casi ci hanno portato ad accettare una scelta e dunque un futuro al ribasso.
Con lo spauracchio di Gigi Proietti a due passi da Largo Argentina, la scelta Lavia equivale a un sospiro di sollievo, ma a me più che il sollievo questo giochino fa tornare in mente i protagonisti -cittadini e operai- delle vignette di Altan e i loro dolorosi ombrelli. A quegli operai penso immediatamente perché questa tecnica, vecchissima, ma sempre funzionante, è ormai un’arma di precisione collaudata in ogni ambito. Anche gli operai di Pomigliano e Mirafiori sono stati costretti a riprogettare il proprio futuro al ribasso. La subdola arma è la stessa ed è più efficace di qualunque manganello: un futuro senza lavoro fa più paura di qualche diritto negato.
Ci stiamo convincendo ad accettare compromessi come questi. Passeremo sopra la rimozione di De Rosa a Napoli. Non criticheremo gli ultimi Premi Ubu perché in fondo alcune scelte sono condivisibili e coinvolgono nostri amici. Ci risulterà normale l’affidamento della presidenza del Teatro di Roma a Franco Scaglia già a capo di Rai Cinema. Certo, persona capace, ma moralmente è corretto raddoppiare cariche così importanti? Non ci scuoterà i nervi l’ingresso di Pamela Villoresi nel cda del Teatro di Roma come ricompensa dopo la bocciatura elettorale alle ultime regionali. Accettiamo perché ci addolciscono sapientemente la pillola. Ma non tutti sono tenuti a piegare la testa a un sistema del genere. Il corsivo di Simone Nebbia proprio sui premi milanesi, violentemente criticato, ma anche apprezzato e difeso, ne è un esempio, un’opportunità per iniziare a mettere in crisi un atteggiamento cominciando da noi stessi.
Andrea Pocosgnich
Link esterni:
Via De Rosa dal Mercadante, fuori da ogni regola di Carlotta Tringali – Il Tamburo di Kattrin
Il decennio degli uomini-programma di Gian Maria Tosatti – La differenza
Lavia-Scaglia a Roma: che Stabile sarà? di Andrea Porcheddu – delTeatro
Teatri Stabili. È tempo di regali di Sergio Lo Gatto – Krapp’s Last Post
Condivido tutto a parte una cosa: Civica? Ho visto a Cesena il suo ultimo spettacolo. La gente usciva bestemmiando. Ha distrutto un testo meraviglioso, neanche le compagnie filodrammatiche ci riescono.
E lo volete come direttore del teatro di roma?
Ma perchè non parlete di questo spettacolo che è l’esempio di come i soldi a volte vanno ai giovani e vengono sprecati in maniera assurda?
Amo il teatro di ricerca, credo sia l’unica strada possibile per far vivere il teatro, ma non mettiamo Civica in mezzo per favore.
Non ha talento, o meglio ha talento per il potere forse, ma non per allestire.
Ciao Guido,
Civica effettivamente divide ogni volta, anzi spacca, platea e critica.
Non c’è dubbio: il suo approccio alla scena e in particolare alla recitazione può innervosire. Però, a mio parere, è disturbante proprio perché cerca in tutti i modi di pulir via decenni di impostazione accademica. Dunque il lavoro che fa sugli attori di riflesso arriva spietatamente anche sul pubblico. E’ quella che lui chiama recitazione tonale, una modalità espressiva che appiattisce il grande classico forzando a tutti i costi le intenzioni (e dunque i toni) degli attori sul “sottotesto”. Ecco che il testo, secondo Civica, è molto più interessante dell’interpretazione degli attori.
Parliamoci chiaro è un ipotesi lavorativa, è un tentativo di ricerca, forse solo con il tempo e altri spettacoli capiremo quanto e a quali testi e autori è applicabile. Però Guido dire che non ha talento mi sembra eccessivo. Il lavoro che fa sulla traduzione e sui testi (ad esempio ribaltando di segno tematiche e atmosfere) è a mio avviso molto interessante e lo ritrovi poi nell’allestimento scenografico e illuminotecnico.
Poi vedi, estetica teatrale a parte (che giustamente può non essere condivisibile), nel nostro discorso Civica rientrava, non solo per la sua ricerca, comunque rigorosa, ma anche per la sua esperienza di codirezione al Teatro della Tosse. E’ un elemento di tramite, è giovane e conosce sia il teatro indipendente (vedi la sua collaborazione con Gli Omini) che quello degli stabili. Forse soprattutto per questo sarebbe un cavallo di Troia ideale.
andrea
ecco il link alla recensione che scrissi dopo la prima del sogno:
https://www.teatroecritica.net/2010/10/al-romaeuropa-massimiliano-civica-ancora-su-shakespeare-un-sogno-nella-notte-dellestate/
I politici non ne sanno nulla di teatro. Lavia per questa gente è il risultato di una scelta politica. Piacerà a tanti italiani, non creerà polemiche, metterà a tacere gli animi.
E il buon teatro e la ricerca di nuovi linguaggi si continueranno a fare altrove.
Purtroppo.
Vorrei solo dire
senza entrare nel merito della bellezza o meno spettacolo
che Guido dice una cosa inesatta:
Civica non rovina il testo, perché fa proprio su quello un lavoro interessantissimo sull’interpretazione e la lettura: elimina totalmente l’eros e la sessualità che spesso nelle messe in scena entra a gamba tesa in quel testo e sottolineerei che una lettura simile mi sa che l’ha fatta solo un tale Brook.
Io avrei votato Arcuri al Teatro di Roma
o me! (il teatro Argentina con pagamento “a cappello” sarebbe fantastico)
😉
Dario Aggioli
Ma come si fa a pensare che al giorno d’oggi, con i governanti che abbiamo, potremmo meritarci di più di un vecchio trombone che ha fatto il suo tempo! Il guaio è che, come direttore, si prenderà meta stagione con suoi spettacoli (oramai uguali da 20 anni), proporrà le sue alla guida della sua “compagnia giovane” capitanata dal figlio e dall’insopportabile Bonomo!
non capisco perché per il Teatro di Roma non si pensi a Giancarlo Sepe che da olte 30 anni ha contribuito a scrivere la storia del teatro italiano dirigendo: Melato, Lojodice, Tieri, Ferrari, Sbragia, Branciaroli, Piccolo, Giordana, Milva ecc. ecc. creando opere d’arte come Favole di Oscar Wilde con oltre 400 repliche al suo attivo, unico regista forse in Italia capce di guardare alla tradizione a al contemporaneo e a riuscire a fonderli con poesia e rispetto.