Incontro prima Gianni proprio di fronte al civico 1 dove poco prima mi ero intrufolato trovando solo Giuseppe Sartori (attore ormai storico della compagnia), il tempo di un caffè, qualche anticipazione sui progetti futuri (Marsiglia, Drodesera e il cinema) e poi arriva Stefano. Ce ne andiamo in una piccola cucina, sì vi è anche una cucina nel bianchissimo spazio della Fondazione Fendi (dove dall’8 al 15 dicembre verrà presentato Some disordered christmas interior geometries), lì al civico 1 del Foro Traiano ti fai il caffè sopra le viscere della storia. Tempo di sederci, aprire il portatile e siamo già dentro al discorso con due tra i più acclamati artisti della scena contemporanea: Stefano Ricci e Gianni Forte.
Una delle cose più interessanti di questo progetto, anche alla luce del dibattito acceso più di un anno fa da Baricco, è la collaborazione con la Fondazione Fendi, come è nato questo rapporto?
Gianni: C’era anche una provocazione fatta da Carmelo Bene qualche anno fa: togliere i finanziamenti a tutti e vedere chi andava avanti.
Stefano: Il discorso del privatizzare è pericoloso perché bisogna capire qual è il grado di ingerenza sui prodotti che vai a creare. In questo caso noi siamo stati chiamati dalla Fondazione perché avevano bisogno di “celebrare” il fatto che loro facessero un percorso culturale attento al contemporaneo, avevano creato altri eventi negli anni passati ma con solo una persona all’interno. Quest’anno si sono voluti aprire anche per cercare di contaminare questo bacino di pubblico che da cinque anni li segue per spettacoli che sono più istituzionali. Il nostro grado di interesse sta proprio nel creare un apparato virulento all’interno di un sistema.
Gianni: Un’infiltrazione, come le piogge di questi giorni.
Stefano: Rispetto al pubblico che conosce il lavoro della compagnia Ricci/Forte, in questo caso c’è veramente un chip inserito sotto un divano capitonnè, nel senso che il pubblico non sa assolutamente nulla di quello che andrà a vedere.
Donne impellicciate e gioielli?
Stefano: Ci sarà la borghesia romana che arriva attratta dalla risonanza della Fondazione, ma senza sapere nulla di quello che troverà. È quello il nostro gancio di interesse. Capire in che modo quella che sarà la nostra grammatica, in un lavoro brevissimo, verrà intercettata da questo pubblico. Molti di loro probabilmente si troveranno di fronte a una foresta semiotica che non hanno mai visto.
Non pensate che anche questo pubblico possa già essere abituato al vostro linguaggio o a forme artistiche simili?
Gianni: Forse va alla prima della Scala, del Teatro dell’Opera o magari anche al Maxxi o al Macro, alle mostre…
Stefano: Sì ma stiamo parlando di una città come Roma e il livello non è molto sviluppato, intendo quello di curiosità più che culturale. D’altronde se non ci fosse mai l’aspettativa rispetto al nostro lavoro sarebbe meglio, come succede all’estero. Anche qui ad esempio c’è stato uno spettatore che voleva prenotare per tutte e 64 le repliche. Ha cominciato a chiamare la Fondazione con schede telefoniche differenti.
Indubbiamente nel vostro caso è nata un’attenzione da parte del pubblico che alcune volte sfiora il divismo e nel teatro italiano una cosa del genere era sparita. Ma torniamo ai contenuti. Charles Dickens, Francesca Woodman, August Rodin, tutto in 25 minuti. Come in Pinter’s Anatomy (recensione) ritroviamo solo un’atmosfera legata a questi autori oppure, ad esempio nel caso di Dickens, ritroveremo anche le sue parole?
Stefano: No, cerchiamo di raccontare delle temperature. Tutto è nato guardando lo spazio. Abbiamo questo primo piano assolutamente anonimo, metropolitano, che può appartenere a qualunque parte del pianeta, scendendo invece si recupera una parte primordiale, tipicamente radicata al centro dell’uomo, dove si sente la presenza dei Cesari, su questa contraddizione abbiamo cercato di strutturare la performance. Raccontiamo come la natività è diventata un prodotto per poi invece affrontare una discesa al contrario verso il centro di quello che forse eravamo un tempo, da qui il lavoro della Woodman, trovare una dimensione liminale attraverso la percezione del reale. Sono atmosfere che ci portano a lavorare sull’identità, tema trasversale nel nostro lavoro, in questo caso amplificato dall’uso della fotografia.
Il tema del Natale è stata una richiesta della Fondazione?
Stefano: No, da parte loro c’è stata solo la volontà di avere la nostra presenza, ci hanno dato carta bianca. Anche in Rodin c’è questo tentativo di uscire dalla sua società, dal suo periodo storico, trovando una plasticità emotiva dirompente aldilà delle forme. Di Dickens cerchiamo di ritrovare la temperatura di quando ce lo leggevano da bambini, di quando credevamo potessero esistere quei microcosmi familiari.
La presenza del Natale era già sviluppata in Pinter’s Anatomy. Siete riparti da lì, da quell’“albero di natale dei morti”?
Stefano: No. La cosa che può essere vicina è che il Natale è il collante della famiglia, ma anche il massimo dell’ipocrisia, di un nucleo famigliare costretto a convivere insieme forzatamente senza conoscersi. Era il punto d’arrivo in quel caso. Qui c’è anche un rapporto differente con il pubblico, non c’è la volontà di identificarsi nell’altro. Qui sono in undici in scena e c’è un rapporto forte tra di loro. Il pubblico verrà contaminato in un modo diverso.
Quanti spettatori entreranno alla volta?
Gianni: 50
Dunque anche una proporzione differente rispetto a Pinter’s Anatomy.
Stefano: Sì, c’è anche una struttura drammaturgica ed emotiva differente. Qui li prenderemo per mano e li porteremo nel paese dei balocchi.
Gianni: Succederà anche fisicamente.
Però c’è anche la volontà di attaccare il Natale. Sul comunicato leggo “un attacco indigesto spregiudicato e pop al cuore del Natale”
Stefano: In realtà non c’è nessun intento bellicoso.
Per questo siete “terribili”.
Gianni: Siamo bracconieri… di parole.
Stefano: Non c’è mai stata volontà terroristica.
Gianni: Se terroristico può essere, è un terrorismo poetico. Una Jihad poetica. Portare lo spettatore in uno stato di vigilanza, farlo rendere conto di quello che lo circonda e non fargli subire tutto passivamente.
Stefano: Poi è chiaro che noi diamo la nostra personale visione del Natale.
Gianni: Il nostro “flash”, come direbbe Chuck Palahniuk.
Stefano: Una visione che è condivisa dai ragazzi che lavorano con noi, ma non c’è l’intento di dire “noi la sappiamo più lunga e voi dovreste fare come noi”. Cerchiamo di capire cosa c’è sotto questo manto di neve che copre tutte ciò che rimane al di sotto, ma c’è.
Arriviamo ai ragazzi appunto. Cos’ è per voi l’attore, o meglio il performer. Quanta libertà gli lasciate?
Gianni: Sono veramente dei dilatatori di senso.
Stefano: C’è molto rispetto. Perché sono loro ad essere al centro di tutto. Infatti quando arrivano performer nuovi c’è la volontà subito di stabilire un terreno confortevole per farli sentire a proprio agio con loro stessi e con il gruppo.
Gianni: Quando siamo arrivarti a Mondaino (in residenza) c’erano 20 persone di cui non ne conoscevamo quasi nessuna ed erano letteralmente terrorizzate. Perché c’è una sorta di fama che ci precede.
Stefano: Forse perché si pensa solo all’aspetto più violento e di superficie, ma in realtà c’è un lavoro nel quale si scava.
Gianni: Scendere più in profondità come fa la poesia. Andare al di là e dentro le cose e non galleggiare in superficie. Alla fine hanno allagato il palco di Mondaino dalle lacrime perché nessuno voleva andare più via. Si era ribaltato questo pregiudizio iniziale. Come se noi fossimo dei terroristi che minacciano i performer con la frusta.
Durante le improvvisazioni chiedete loro un lavoro psicologico?
È più un lavoro emotivo, è un viaggio emozionale. Non c’è un discorso di psicodramma.
Banalizzando possiamo dire che non si tratta di Stanislavskij .
Gianni: È più Diderot, se vuoi.
Stefano: Devono entrare nelle nostre visioni. All’inizio è più difficile. Ma poi si lanciano, creano, affrontano fantasmi che avevano messo da parte, con la sicurezza che quello che dicono non viene strumentalizzato. Ma può venir scritto in altra maniera e messo in bocca a qualcun altro con una struttura differente. I performer diventano responsabili politicamente rispetto a ciò che fanno. Non sono esecutori.
Sull’ invito è riportata la notazione “Adatto a un pubblico adulto”. Che cosa ci aspetta?
Stefano: C’è sempre questo timore di scandalizzare le coscienze vedendo qualcuno che dice qualcosa di poco adeguato o mostra quel centimetro di epidermide in più rispetto al consentito. Che poi ditemi qual è il consentito così io almeno lo so…
Non è una trovata pubblicitaria?
Stefano: No, è solo un discorso per cautelarsi rispetto al perbenismo imperante che purtroppo sta crescendo anche in questo paese. Ché poi molte volte questi cartelli arrivano ancor prima di iniziare le prove, perciò sulla fiducia viene detto “Adatto a un pubblico adulto” , un giorno metterò gli attori tutti seduti su delle sedie, immobili vestiti con dei cappotti, e il cartello: “per un pubblico adulto”. Questa cosa è paradossale ed è segno dei tempi.
Rimanendo sul discorso relativo alla sessualità. Se pensiamo a uno spettacolo come Macadamia (recensione) è un segno molto forte, è una sessualità esplicita e sovraesposta. Un attore e artista che ho avuto modo di incontrare dopo lo spettacolo al Piccolo Eliseo, si chiedeva perché in quella scena dove due dei protagonisti fanno sesso non lo facciano veramente, se in quel contesto Ricci e Forte vogliono scioccare allora devono portare l’atto alle estreme conseguenze.
Gianni: A noi non interessa.
Stefano: È successo anche che qualcuno ci dicesse: “non c’è amore, non c’è romanticismo”. È una scena che deve dimostrare il meccanismo, è un carillon… vuole solo dire “uso il corpo come potrei utilizzare qualsiasi altra cosa facendo ginnastica in palestra ”. Non ci interessa scandalizzare facendo sesso in scena.
Gianni: Poi gli ingredienti della trasgressione sono noiosi e superficiali e quindi diventano anche soporiferi.
Stefano: Ma basta vedere qualsiasi film per avere quel risultato. Media come il cinema ci superano di gran lunga. Allora il discorso è nel trovare una forma che faccia scendere dal palco la sensazione, che era quella relativa a Cooper.
Con questo evento vi avvicinate ancora di più all’arte contemporanea. Teatro e performance si sono sempre influenzati a vicenda. State cercando anche di prendere un’altra via che vi porterà verso le gallerie d’arte?
Gianni: Sono delle interferenze. Qui la parola è quasi ridotta allo zero rispetto ai lavori precedenti e c’è una continua combine, un mash-up di media, di citazionismo, continue interferenze fra le arti figurative, la musica, i b-movies e il fumetto, come se fosse una tavolozza bianca in cui verranno messe insieme tutte queste macchie di colore per creare il nostro Frankenstein, come se fossero tante parti di un corpo. Sarà poi compito dello spettatore metterle insieme e creare il suo mostro. Quello che a noi interessa è allontanarci sempre di più, visto che lo abbiamo già fatto, dal wallpaper theatre, dalla quarta parete, dando allo spettatore una visione a 360 gradi facendolo muovere insieme al performer. Non si capirà più qual è lo spettatore e quale il performer, il contaminato e il contaminatore, la vittima o il carnefice. Un continuo flusso di sguardi, visioni e movimenti.
Stefano: Non c’è un vero e proprio obiettivo nel nostro dirigerci verso l’arte contemporanea, c’è la curiosità, un viaggio nel mare libero e il tentativo qui di capire che rotte prendere di volta in volta. Anche noi cresciamo, anche noi invecchiamo.
Gianni: L’enfant! A proposito di questa storia, vorrei dire che noi non abbiamo avuto una turbo-carriera, non siamo nati due anni fa, abbiamo iniziato 15 anni fa.
Però devi ammettere che l’esplosione è stata improvvisa e fragorosa.
Gianni: Tutto è esploso con Macadamia, come se improvvisamente si fosse squarciato un velo che stava lì da tempo. Una grande attenzione degli operatori e dei giornalisti, mentre il pubblico ce lo abbiamo avuto da subito, da Troia’s Discount e ormai è diventato un pubblico eterogeneo. Siamo appena stati al Goldoni di Venezia e vedere in un posto del genere un pubblico adulto che si alza in piedi e batte le mani come in una standing ovation da concerto rock è per noi esaltante.
Arriviamo ad alcune critiche che si sentono su di voi, alcune fatte anche da vostri colleghi, vi basti il lungo e interessante dibattito nato tra i commenti della nostra recensione a Macadamia. Secondo altri la vostra estetica nella forma glamour e queer con questi segni forti ed espliciti quasi sovrasta il contenuto, che cosa ne pensate?
Gianni: Provengono dalla scuola di Francoforte. Noi siamo di formazione statunitense dove il mainstream, la cultura di massa non è qualcosa considerato di seconda classe, e questo è un pensiero tipicamente italiano e forse più precisamente di zona romana. È qui che c’è una sorta di snobismo. Noi ad esempio eravamo sceneggiatori, ma non potevamo scrivere e girare film perché non venivamo dal centro sperimentale. In America invece, dove abbiamo studiato con Edward Albee, premio Pulitzer per il teatro, trovi persone come Alan Ball che scrive American Beauty ma senza problemi lavora nelle serie tv, non c’è snobismo rispetto alla formazione. Il glam, la moda, tutto ciò fa parte di noi quotidianamente come la cultura queer.
Stefano: In realtà tutto è basato sul contenuto, dal contenuto si sviluppa la forma esteriore. Quella forma ha lo stesso valore perché è proprio grazie alla forma che tu riesci a leggere il contenuto. Se davanti a un uomo con i tacchi alti riesci a vedere solo un travestito vuol dire che non riesci a leggere il senso di precarietà e il messaggio esteriore altro rispetto a quello che stai vedendo. La nostra cultura è fatta di segni molto precisi e radicati nel contemporaneo.
Voi, almeno sembra, non vi ponete molti problemi rispetto alla costruzione delle emozioni. Parte del teatro contemporaneo si confronta molto con questo tema cercando di non scatenare molto facilmente questo circuito empatico. Mi sembra che nei vostri spettacoli l’emozione, contenuta fino a un certo punto, poi esploda senza timore.
Stefano: Sì ma è comunque il risultato di addendi, di un percorso, non la confezioniamo sapendo che mettendo in quel momento una certa musica. Poi il fattore emotivo per noi è importante perché ci permette di raccontare quello che vogliamo. Questo discorso per il quale bisogna essere concettuali per forza mi fa sorridere, perché secondo questo ragionamento chi invece raggiunge l’emozione è da Teatro Sistina. È lo stesso snobismo secondo il quale se fai ricerca non devi avere pubblico e se c’è il pubblico vuol dire che non fai ricerca.
Sembra che due giorni fa l’assemblea dei soci abbia deciso per il nuovo direttore del Teatro di Roma: Gabriele Lavia, e presidente Franco Scaglia. Si parlava di tanti nomi come Barbareschi, De Fusco, Gigi Proietti. Con Lavia la sensazione è quella di aver archiviato il rischio di cadere dalla padella alla brace.
Stefano: Certo con Proietti non ci sarebbe stata possibilità di contraddittorio, sarebbe stato un muro di gomma. Ma di cosa vogliamo parlare, di Franco Scaglia?
Poi noi del Teatro di Roma non possiamo proprio parlare male perché hanno comprato un nostro spettacolo a scatola chiusa, solo col titolo (Grimless). Lo spettacolo deve ancora nascere.
Qualche anticipazione?
Gianni: Racconterà le fiabe che siamo costretti a raccontarci tutti i giorni.
Dunque le bugie.
Stefano: Le fiabe che ci raccontano gli altri, le fiabe di uno Stato che non c’è.
Lo Stato, appunto. Rispetto al tema del momento, voi siete tra quelli che vanno o che restano?
Stefano: Certo qui sentiamo l’esigenza di far capire che c’è altro rispetto al teatro tradizionale, è il motivo per cui stiamo qui oggi, altrimenti non avremmo accettato collaborazioni come quelle col Teatro di Roma con Popolizio ad esempio. Però è anche vero che all’estero le collaborazioni nascono più facilmente e con un maggior rispetto per il tuo lavoro e una maggior comprensione.
Chiudiamo accennando a un interessante dibattito emerso grazie a manifestazioni come Novo Critico (articoli). Che cos’è per voi la critica?
Stefano: È importante quando c’è un percorso comune. Andrea Porcheddu ad esempio ci conosce da quando abbiamo esordito e ogni volta fa un lavoro di analisi rispetto a questo percorso e questo ci aiuta a capire le propagazioni della semina fatta in passato. È fondamentale per un gruppo percepire lo sguardo dell’altro da fuori. Credo che sia questo il senso della critica. Se la critica diventa un attacco privato e violentissimo come quello di Cordelli sul Corriere della sera, che senso ha? D’altronde se il più importante premio è l’Ubu, che nonostante tutto determina ancora un certo valore, con tutti i festival legati a quelle scelte, questo ti fa pensare.
Andrea Pocosgnich
6 dicembre 2010
Roma
Leggi la recensione di Some disordered christmas interior geometries
Ho letto con vero piacere l’intervista. Esaustiva e molto accattivante, ricca di contenuti. Un discorso approfondito sempre a piombo sulla ricerca di senso così indispensabile per cercare una rotta sicura per navigare nonostante il “vento che rema contro”.
Ottimo lavoro Andrea!
Roberto
bellissima intervista. bravo andrea! grazie
Complimenti anche da parte mia, anche se l’intervista acuisce una piaga: ho perso Ricci&Forte perché sono arrivato con 5 minuti di ritardo allo spettacolo che avevo prenotato…
certo che provengo dalla scuola di francoforte!!
Anche se devo dire che la usurata liquidazione dell’Adorno/horkheimer pensiero come snobismo intellettuale nei confronti della cultura di massa in sé è da parte vostra, e non solo vostra ma di tutto l’ambito dei c.d cultural studies di area anglo-americana, una comoda scorciatoia, se non quasi, se non una colossale impostura, una goffa caricatura.
Rimando, in mancanza di altri riferimenti on line a portata di mano, all’ottimo articolo di Marco Maurizi (uno dei miei spunti principali, non a caso, anche nel titolo, per lo spettacolo “Ecce robot”) su AV on line, che affrantava tra le altre cose la questione:
Ecce robot: come si filosofa coi pugni atomici
http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=26