quinto capitolo di Epica, Etica e Pop – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro. di Graziano Graziani
In questo quadro mi sembra che, a prima vista, il teatro dei cicli e dell’epica contemporanea presenti qualche anticorpo in più rispetto a un fenomeno come la New Italan Epic. Nella letteratura il ricorso all’epica è sì un tentativo riuscito di recuperare un più ampio respiro a una narrativa che sembrava destinata ad avere il fiato corto; ma la narrazione mantiene un grado di finzionalità decisamente elevato, dove da questo punto di vista l’epica non è altro che il nuovo patto comunicativo tra chi scrive e chi legge, nient’altro che la “forma in voga”. Certo, poi questa forma può essere utile per tornare a mettere sul piatto della letteratura tematiche importanti e di più ampio respiro – ad esempio il “destino dei popoli”, secondo Wu Ming – ma è spesso anche un meccanismo strumentale che utilizza la forma in modo seduttivo, ed è quindi a forte rischio di retorica. Nelle arti che utilizzano la parola questo rischio si materializza di solito quando si è convinti, in modo più o meno manifesto, della superiorità del contenuto rispetto alla forma; mentre è il rapporto osmotico tra forma e sostanza a far scaturire l’alchimia necessaria affinché un oggetto d’arte parli davvero a chi lo fruisce. Non sto ovviamente affermando che l’intero corpus di romanzi citati da Wu Ming 1 nel suo saggio siano retorici, tutt’altro; ma che la loro finzionalità, il loro “crederci”, il loro ricorso all’epica per sentirsi epici, resti un limite – per altro un limite strutturale, visto che la narrativa è prevalentemente “fiction” – all’equazione “epica uguale recupero di un possibile discorso sul mondo”. Non dico che questa equazione non sia possibile, semplicemente che non è automatica. Perché manca un aspetto fondamentale per la letteratura, il terzo vertice del triangolo che poggia sull’asse forma-sostanza e che è forse l’elemento più importante: la lingua. È la lingua dello scrittore, il suo stile, a far sì che il patto comunicativo non resti mera seduzione ma produca uno spostamento dello sguardo del lettore sul mondo; e non a caso è proprio la lingua il grande rimosso della letteratura nell’epoca della post-modernità, è lo stile ad essere finito sul banco degli accusati per il fatto di costituire un ostacolo naturale alla comunicazione. Da questo punto di vista un esperimento straniante come «I canti del caos» di Moresco mi sembra un ricorso all’epica più complesso e riuscito.
Nel teatro la questione corre su un altro binario. Perché la riflessione sulla finzionalità è esplicita e irrinunciabile, è praticamente il rovello di ogni teatrante da quando esiste il teatro. E il tema della realtà e della finzione è intimamente connesso alla natura stessa del medium teatrale. Una buona fetta delle ultime generazioni teatrali italiane – a prescindere dal fatto che utilizzino o meno il genere epico – hanno declinato, in varie forme estetiche, un’urgenza comune: l’urgenza di scardinare in vari modi i meccanismi della comunicazione, di mostrare in scena il giocattolo rotto, spaccato, per poterne mostrare il funzionamento1. Il capitale che il teatro si porta dietro, in questa riflessione, è la messa in discussione dell’idea di “rappresentazione” (in quanto elemento di finzione) che ha agitato le acque del dibattito teatrale praticamente durante tutto il Novecento. Il risultato – come a sottolineato Andrea Porcheddu durante l’incontro su «One Day» – è che oggi ad esempio è possibile assistere a spettacoli, in tutta Europa, che recuperano meccanismi di racconto e “messa in scena” ma che allo stesso tempo presentano quel fenomeno, mutuato dalla performing art, della “scomparsa del personaggio” (ovvero quando gli attori stanno sulla scena in quanto se stessi, e non perché stanno cercando di materializzare uno specifico personaggio). E questa coesistenza – al contrario di quanto avverrebbe in letteratura, dove si finirebbe subito nel campo nell’esperimento metaletterario – non dà all’opera un alone di metateatralità. Al contrario, recupera il patto comunicativo con lo spettatore sulla base del fatto che assieme a lui l’attore smonta la comunicazione abituale e i suoi meccanismi.
1 Vedi a questo proposito il saggio «La realtà allo stato gassoso. Uno sguardo ai teatri degli anni Duemila» di Graziano Graziani, in corso di pubblicazione in forma di articolo su www.altrevelocita.it a dicembre 2010.
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