Non sono contrario alla cultura pop in assoluto, diciamo che non mi piace vederla a teatro
Guillermo Calderon1
Concordo quasi con ogni riga di quanto Graziano Graziani ha scritto sulle “manovre d’uscita” dal postmodernismo del nostro teatro più recente e nel contempo mi chiedo perché, quasi a ogni riga, mi assalga un senso di affanno da marcia in alta montagna. Leggo che “non c’è una risposta univoca” e sento che il masso di Sisifo sta di nuovo per scivolare sul malcapitato Titano. Che ci sia un’ingovernabilità teoretica della materia? O come in certe osservazioni della fisica delle particelle, che sia ormai diventato impossibile misurare insieme la velocità e la direzione di un fenomeno? Forse la risposta, l’unica risposta sufficientemente “univoca” per essere veramente una risposta, è soltanto spostata su un altro piano: se parole come pop, postmodernismo, continuano a tornare sui nostri discorsi – più o meno critici – e ad avvolgerli con un’aura di inesorabilità, come se fossero diventate un paradossale destino del contemporaneo (paradossale perché si tratterebbe del destino di non avere più alcun destino, l’accettazione di un principio di indeterminazione che innerva e vanifica tutte le forme artistiche), è perché non rispondono tanto a una petizione di tipo formale, quanto all’intossicazione di un clima affettivo. Quando Jean Baudrillard ha cercato, a più riprese, di afferrare l’essenza dell’opera di Andy Warhol (la warholità come la chiamavano Daria Deflorian e Antonio Tagliarini nello spettacolo che hanno dedicato alla “filosofia” dell’artista di Pittsbourgh), ha finito col delineare lo sfondo di radicale indifferenza su cui essa si stagliava: Warhol era il culmine indifferenziale, totalmente neutro, in cui l’equazione tra l’arte e la realtà diventava a somma zero. Il suo pendolo oscillante tra il genio e la banalità, tra il valore e il disvalore di ciò che è artistico, segnava l’avvento di un mondo-oggetto che il filosofo francese si ritrovava a definire con un ossimoro: “radicalmente superficiale”2. Stessa procedura, solo più sconcertata, meno complice in Fredric Jameson quando, affrontando proprio quel “declino degli affetti” che insinua nell’arte “un nuovo genere di piattezza…di superficialità nel senso letterale del termine”, e che costituirebbe “il supremo aspetto formale di tutto il postmodernismo”, torna fatalmente su Warhol, e precisamente sulle Diamond Dust Shoes – delle scarpe luccicanti che, dice il teorico americano, a differenza di quelle di Van Gogh, non ci parlano più.3 Forse non è un caso,allora, che nel giro di una manciata di anni molti artisti italiani siano tornati, in maniera più o meno diretta, proprio sulla figura di Warhol e sul suo dispositivo ironico di rappresentazione “indifferenziale”: lo ha fatto Romeo Castellucci nel suo Inferno (e continua a farlo, sarei tentato di dire, nella demiurgia sovranamente ironica con cui irrompe sulla scena del suo Sul concetto di Volto nel figlio di Dio. Vol II, proponendoci una versione pop della teodicea); lo ha fatto, come si è detto, l’acido kammerspiel di Deflorian e Tagliarini, così come Warhol e le sue procedure, possono essere considerati il contrafforte cool del brechtismo riemergente nell’impresa degli Artefatti in One Day – e resterebbe ancora da riflettere sull’influenza che l’epica raggelata di Death and disaster ha eventualmente esercitato sui disastri minimalisti di Roberto Castello, sul teatro di Ricci e Forte, sui cicli di Spreagelburd segnalati da Graziani e, in particolare, mi sembra, sull’idea di fondo della Eptalogia di Hieronymus Bosch4, l’idea, anch’essa ossimorica, di declinare una tavola di peccati capitali sulla base di un’etica decentrata (dove l’ironia non si sa bene cosa tocchi, a parte l’incapacità, squisitamente postmodernistica, di agire al di fuori di uno svuotamento delle vecchie strutture metafisiche in una specie di vampirismo senza fine).
L’ironia è uno degli aspetti più sottaciuti nella disanima dei complessi rapporti tra l’epica, l’etica e il pop che secondo Graziani dominano il nuovo corso del teatro contemporaneo in Italia e sono sicuro che non si tratti di una svista, ma, al contrario, di un abbaglio: è così evidente questa ironia sulle nostre scene, costituisce a tal punto il loro collante formale e il loro presupposto affettivo, che citarla e affrontarla è persino inutile, se non impossibile – essa infatti non è più semplicemente una figura (una “figura retorica” come si diceva una volta), ma una condizione. Se un nuovo patto di complicità si sta stabilendo tra il performer post-drammatico e il suo pubblico è in virtù dell’ironia che li accomuna nel loro reciproco non-credersi (e scambiarsi di posto) all’interno di un’illusione che senza posa viene frantumata: proprio il continuo trasumanare della persona sotto i panni dell’attore, l’ostentata segnalazione di un vuoto, di uno spazio nudo, tra il palco e la scena, celebra con la vacuità del segno (con il suo avvenuto smascheramento in quanto illusione rappresentativa, mimesis di una vita “altra”) la stessa vacuità del reale a cui il segno si oppone. Nel contempo, come si sa, almeno da quando Roberto Latini (in Buio Re) portò ai limiti del proscenio il perturbante silenzio di un corpo attoriale che si sporgeva come un falco sui suoi spettatori (ed è, per così dire, in eccesso la movenza di Mein Lanfang, l’attore classico cinese amato da Brecht che Luca Scarlini rievoca in One Day5 ) niente è più potentemente teatrale di questo annullamento, di questo sospendersi sul vuoto, dei confini della scena. A tal punto che, rimpiazzando il drammatico, esso è diventato – la parola andrà pur detta – la maniera di un teatro che quasi ogni sera gioca con l’ultima illusione possibile, quella del sociale, una partita di ironica riflessività: la scultura iperrealista del performer che ostenta la propria identità, più vera del vero (e più vera proprio perché il segno della scena la rafforza), aspetta un po’ ovunque lo spettatore al varco della propria irrealtà, della propria incredulità davanti alle comiche, grottesche ricadute del drammatico. Ridiamo di noi stessi e del nostro essere fittizi – ormai totalmente privi di natura – su una scena in cui la rappresentazione, e talvolta più semplicemente il montaggio delle citazioni (il coro di Babilonia Teatri in Pornobboy), mettono penosamente in scacco le rappresentazioni reificate in cui siamo immersi; è una nuova mouse trap, finora la più efficace tra quelle che il teatro contemporaneo ci ha proposto, dove il drammatico è stato violentemente espulso dall’ironia delle sue metarappresentazioni, dei suoi processi demistificati e privi di verità. E tuttavia – ed è la perplessità, mi sembra, che pervade l’articolo di Graziani – niente ci assicura che proprio questa ironia non costituisca il dispositivo finale grazie a cui il postmodernismo paralizza qualunque istanza di alterità schiacciandola su una superficie di indifferenza dove tutte le immagini, tutti i valori, si equivalgono: apocalisse cool di una storia tornata alla ciclicità del mito e dell’epos in virtù della sua radicale perdita di profondità. Forse le vecchie riflessioni di Herman Broch sulla nullità etica del Kitsch ( “in arte il male è rappresentato dal kitsch”) oggi ci possono soltanto far sorridere. Ma dovremmo quanto meno riuscire ad ammettere che una dimensione critica del pop, propriamente parlando, non esiste. Il pop disincarna l’immagine perché la porta definitivamente al livello della cosa, della merce, il suo estremo dandysmo confonde l’arte e il mondo, il segno e il prodotto in un’unica percezione che nell’indistinzione compie la sua rivolta ironica, ma la compie come gesto di fatale e definitiva complicità: è quando tra le vere brillo box e i brillo box di Warhol non si riesce più riscontrare alcuna differenza – se non quella segnalata dall’ambito artistico – che l’immagine diviene, come diceva Debord, “la forma finale della reificazione”. Con buona pace di Arthur Coleman Danto o, forse, confermando le sue teorie sull’”arte dopo la fine dell’arte” (che è un altro postmodernistico segno dei tempi: l’impossibilità di dare torto a chiunque…). Non si tratta, ovviamente, di operare un transfert meccanico dalle arti visive a quelle dello spettacolo dal vivo: troppa umanità, fortunatamente, fuoriesce dai cantieri teatrali perché questo sia possibile; si registra una tendenza, ed essa è subito smentita da un fatto, da un imprevisto sconfinamento del formalismo artistico nell’inquieta precarietà della forma drammatica, perché la vita (una vita contraddittoria in costante esubero di pensiero) alimenta il teatro, e non il concetto. Ma sull’attuale tendenza a rimuovere il drammatico, o sull’attuale incapacità a governare il drammatico là dove comunque si produca come soprassalto incontrollato, imbarazzante (ironia dell’ironia) del parossismo di straniamento a cui la scena del contemporaneo è sottoposta- forse qualche considerazione andrebbe fatta.
Sarebbe interessante capire, ad esempio, perché, in ogni rassegna critica del nostro territorio teatrale, i lavori di Danio Manfredini compaiano come un’eccezione perdurante e necessaria di cui l’ammirazione, inevitabile, seda a fatica il sentimento di lontananza, altrettanto inevitabile, rispetto alla koiné della nuova scena – non che sotto le maschere del Sacro segno dei mostri (per non dire di quelle di Cinema Cielo…) non brilli la luce corrosa dell’ironia, ma essa è così dolente, e così musicale, che non può essere separata dal suo pathos, dal suo pathosformel drammatico. Come mai non si parla più, non si osa più parlare di poesia? Mi viene da rispondere gergalmente: perché la poesia non è “fica”, non è cool (se è giusta la traduzione che ho immaginato dei dialoghi di Aaron Sorkin in The Social Network, dove Facebook è “fico”, mentre la pubblicità non lo è abbastanza). La sua immediatezza non-dialettica vorrebbe stabilire con noi un rapporto di credenza, di confidenza, di fedeltà, ignorando che parole innocenti, immagini innocenti, non ne possiamo ammettere: qualunque compromissione sentimentale deve lasciarci uno spazio in cui evadere dal suo spettro gravitazionale, sottrarci alla sua stretta emotiva, richiudere il più in fretta possibile l’orizzonte aperto dalla sua alterità. La poesia è ridicola, anacronistica, e del resto là dove veramente avviene quasi mai (come l’arte) è in se stessa: emarginata dallo stesso spazio letterario, è ormai trattata come un genere privato, una nuova forma di kitsch. Eppure l’epica brechtiana non può essere impunemente mutilata dell’ispirazione lirica che la sostiene, la illumina e, al momento buono, la svia (non può esserlo, intendo, senza decadere alla stregua di una mera metodologia o di una didattica ideologica che nel frattempo ha perso il suo riferimento principale). La neo-epica alla Ravenhill, invece, appare tanto potente nella sua determinazione linguistica ad abitare delle retoriche di comunicazione che sono quelle del mainstream ideologico dell’occidente – e dunque, di nuovo, potente nell’ironia – quanto inane non appena ricade in una relazione con l’altro che vada al di là di una semplice proiezione fantasmatica e deforme dello stesso: chiunque parli, o demonicamente taccia (gema, rantoli) nei pezzi di Spara, trova il tesoro, ripeti, non è altro che noi, il riflesso maledetto del nostro discorso (dominante, anzi così dominante dal diventare irreprensibilmente solitario)6. C’è sicuramente una grandezza in questo deserto dell’amore. Ma nessuna etica che possa apparirvi manifestandosi altrimenti che come un disperante miraggio.
Attilio Scarpellini
Leggi anche:
La poesia e l’Armata Rossa
di Azzurra D’Agostino
Epica, Etica e Pop – manovre di uscita dalla post-modernità tra letteratura e teatro.
di Graziano Graziani
1 “Parliamo di Cechov per parlare della guerra in Iraq” colloquio con Guillermo Calderon in (a cura di Katia Ippaso) Le voci di Santiago, Editoria & Spettacolo, Roma, 2009, p. 45
2 Jean Baudrillard, “Andy Warhol” in (a cura di Gianni Mercurio) Andy Warhol. Pentiti e non peccare più, Skira 2007. Ma in molti altri luoghi dell’opera di Baudrillard il giudizio su Warhol non fa che ripetersi e precisarsi nel tentativo di mettere a fuoco la sua costitutiva ambiguità
3 Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, pp.26-27
4 L’eptalogia è stata pubblicata in italiano dalla casa editrice ubulibri in due volumi curati da Manuela Cherubini
5 “Il bambino al concerto dei Kiss e Luca Scarlini all’Opera di Pechino” in Magdalena Barile/Accademia degli Artefatti, One Day. Finalmente vivere servirà a qualcosa, a cura di Simone Pacini, Titivillus editore, 2010, p 176, in particolare, dove Scarlini cita direttamente da Effetti di straniamento dell’arte scenica cinese di Brecht: “L’attore non recita come esistesse una quarta parete (…) Egli anzi sottolinea la sua consapevolezza di esser visto, e con ciò elimina una delle illusioni tipiche della scena europea. Il pubblico non può più illudersi di assistere da spettatore invisibile a una vicenda che sta realmente accadendo.”
6 Ho tentato, forse vanamente, di precisare questa inibizione all’altro sia nello scritto pubblicato in margine a Mark Ravenhill, Spara/Trova il tesoro/Ripeti, a cura di Lorenzo Pavolini, Editoria & Spettacolo 2010, sia in una versione accresciuta dello stesso saggio (“Mark Ravenhill e l’altro”) pubblicata sull’ultimo numero della rivista Nuovi Argomenti.
Privo degli strumenti per arrampicarmi in una condivisione o un confronto che possano essere davvero significativi, non posso però fare a meno di dire: grazie…