Che effetto fa un rompicapo sul suo creatore? La sua costruzione rischia di coinvolgere anche lui? Con parole più precise: l’idea che sottace a una creazione, quanto influisce sulla creazione e sullo stesso creatore? Mi lascia la domanda questo Le Scarpe, spettacolo di Teatro Minimo in formazione over, con drammaturgia di Michele Santeramo, regia di Michele Sinisi, in scena con Alice Bachi, Vittorio Continelli, Paola Fresa, Sergio Raimondi. La ricerca dei testi di Santeramo, fra i migliori drammaturghi italiani, continua anche qui nel rapporto fra reale e virtuale, senza dover scomodare l’ormai abusato ruolo dell’immagine nell’epoca contemporanea, ma continuando a dedicarsi alla finzione non virtuale, la finzione minima, appunto, come il loro teatro. Così sono scenari familiari, provinciali, a costituire il luogo della menzogna: come nel precedente Sequestro all’italiana, anche qui i personaggi (cinque e non più due) scontano su di sé la loro impossibilità alla verità, il loro senso del segreto è più forte della deliberata necessità del vero.
La povertà degli elementi è obbligata (non tanto dal furto delle scene per le repliche romane…) dal desiderio di comunicare proprio quella povertà e insieme che in quella povertà sta la finzione necessaria a reggerne il peso; c’è un perimetro casalingo in cui agiscono gli attori, tra di loro una serie di nodi che scoppiano mentre provano a tenerli celati, in contraltare fra i fingitori della famiglia e i due arrivi dall’esterno che, provando a scuoterli, non fanno che portarli a finzioni ancora più grandi. Lo stile un po’ retrò della regia e della scena, come detto “minima”, è una riconoscibilità della compagnia e per questo apprezzabile a priori; alcuni dialoghi hanno davvero una forza dirompente confermando le drammaturgie di Santeramo battenti e ritmiche, forse anche per la lingua intima velocissima, il pugliese, che è riferimento sotterraneo al dire italiano. E torna anche questa lingua, l’unico a parlare seriamente, a dire la verità nei suoi “a parte” molto divertenti: il pappagallo di casa, che perde piume per finta del suo padrone che le getta in terra dalla sua tasca per distogliere l’attenzione, lui dice la scomodità di una vita reclusa, ma resta sospeso, giustamente, se si tratta di lui o di tutti loro.
Dunque, parola chiave è “tenere il gioco”, che ha le sue radici nella realtà terragna e provinciale, nella morale cattolica in cui soprattutto il sud ancora stempera la sua crescita culturale, ma quando questo gioco si fa in teatro c’è da tener presente un’attenzione maggiore: il gioco è già espresso, il teatro è già artificio, e dunque l’artificio che parla d’artificio è un rischio di sempre complessa definizione capace di confondere e generare apparente mancanza di profondità, a far dire: come si svela il mancato svelamento? È questo a confondere fino a chiedersi – e sono sicuro essere nell’idea degli autori – se la verità sia quella segreta e negata o quella palese e manifesta. Ma, del resto, purché una ce ne sia, di verità.
Simone Nebbia
in scena al Teatro Arvalia – vai al programma 2010/2011
fino al 28 novembre 2010
Roma