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Confessioni improvvise – di certo non bestiali – di un cronista ai Santasangre

Nutrimento. Il fabbisogno calorico giornaliero, come da etichetta d’alimenti, varia a seconda delle sostanze, ma varia e soprattutto secondo il corpo che se ne serve: il valore di ogni cibo assume diverse caratteristiche secondo le capacità di assimilare e il bisogno momentaneo di quell’organismo. Ammetto di averci pensato molto, mentre sostavo di fronte a questo Bestiale improvviso versione definitiva, senza più tappe né passaggi intermedi (anche se poi uno spettacolo anche finito continua ad averne molti), del nuovo lavoro del collettivo romano Santasangre. Pensavo al nutrimento perché viviamo tutti dentro organismi diversi e la parzialità di una percezione artistica è tale a quella alimentare del cibo, variante al variare della necessità organica. La confessione del cronista parte da qui: la mia urgenza corporale non coincide con questo nutrimento offerto dai Santasangre, nuovo e per questo ammirevole per coraggio rispetto alla loro direzione usuale e di successo, però rischiosa quando si cambia la ricetta di quel dolce che ci veniva così bene, prelibato di sicuro, ma è per me come vivere qualcosa di meno di una intolleranza alimentare nello stomaco, in una normale serata a teatro.

Quindi sono qui per dire perché no, perché non sono riuscito a percepire questo spettacolo, a penetrarlo e farmene nutrimento intellettuale. Appena entrati c’è fumo per tutta la sala, una atmosfera asfittica che nella musica trova il suo compimento, ma l’uso è ormai antico per la pratica del contemporaneo, quindi aspettiamo. Si svela attorno alle “tre grazie” danzanti (Roberta Zanardo, Cristina Rizzo, Teodora Castellucci) una forma prospettica del palco, molto intrigante, che parla di un debito alla geometria, tenuto con forza anche nei movimenti della danza, intimidita da una geometria più grande che si erge minacciosa sopra le loro teste: il pericolo, la struttura sopra la struttura, la scienza schiacciante sopra l’uomo sembrano dire i Sansasangre.

Lo spettacolo resta tuttavia per me piuttosto esteriore e mi è difficile comprenderlo. La sensazione è di una sapiente costruzione, questi artisti conoscono ormai alla perfezione come erigere una struttura solida, uno scheletro affidabile, tuttavia mi pare che non ci sia un’idea compiuta oltre questo scheletro: da lì in poi, dall’entrata sulla scena di sensazioni riconoscibili e per questo non più così vibranti, ci si aspetterebbe una evoluzione drammaturgica che invece sento mancare. Non mi basta la semplice stimolazione sensoriale, o sono io a non trovare ciò che ad altri sarà evidente, ammetto senza superbia la mia distanza estetica: forse la differenza è soltanto che ho bisogno di uno stimolo intellettuale e non solo sensoriale, non so, quest’ultimo non mi basta, non più: ho bisogno di senso concreto da portare con me, che sovverta su più livelli, insomma da spettatore ho bisogno di diverse proteine per il mio pasto, più di un godimento del palato nella scala nutrizionale, ma più di tutto, credo mi sia necessario, in mancanza dell’arrosto sotto a tutto quel fumo, almeno l’illusione che questo spettacolo sia da sostituto, a un più nutriente pasto caldo.

Simone Nebbia

visto il 10 novembre 2010
Teatro Palladium – Romaeuropa Festival [vai al programma 2010/2011] Roma

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