A Venezia, per fare il testimone. Durante il viaggio mi domando di questa mansione cui mi chiama la Biennale diretta da Alex Rigola, per questo progetto OctoberTest 2010 coordinato da Andrea Porcheddu, di seguire con acume e attenzione il laboratorio intensivo di Rodrigo Garcia, drammaturgo e regista tra i più stimati al mondo; me lo chiedo fino a quando, dalla casa che mi ospita, dopo aver attraversato ponticelli e turisti distratti dalla contemplazione di una città inafferrabile allo sguardo, un birillo verde mi chiama al simbolo semantico, sdraiato e abbandonato in un apparente dopo festa, sul tetto di lamiera rosso autunnale: è di certo lì perché io capisca cosa sto per fare, cosa sta per accadere finché io ne racconti, dove inizia e dove finisce l’arte a filtro di una indagine che del mondo è, essa stessa, parte concreta.
Il teatro è Fondamenta Nuove, come il nome della banchina che percorro per arrivarci, una realtà che sotto la direzione di Enrico Bettinello> ha svolto, sul territorio come le attività gemelle in tutta Italia, quel ruolo di scoperta e prima diffusione del serbatoio artistico cui oggi si fa riferimento in grandi palcoscenici; ed è bene che ogni tanto, tutto questo si dica.
Mi metto in un cantuccio d’angolo e da lì osservo.
Faccio passare attraverso di me la magia della creazione.
L’angolo del testimone.
Rodrigo Garcia è un uomo silenzioso, che osserva e ascolta con attenzione, viva curiosità. Ha chiesto ai partecipanti, diciannove con precisione, di preparare un testo di loro pugno che parlasse di loro, del loro “mal camino”, della cattiva strada, la meno agevole ma più diretta e fruttuosa, per quel luogo da raggiungere: l’espressione. E li ascolta uno per uno, leggere la spinta emotiva dietro il suono delle loro parole. Quando fa spegnere il condizionatore della sala capisco tutto questo, capisco che il disturbo a monte va eliminato, la purezza dell’espressione ha bisogno di quel silenzio, della cura, per la creazione di un disturbo che sia invece organico, del tutto personale. E quindi artistico.
C’è uno schermo acceso, in alto, c’è scritto soltanto “assenza di segnale”, mi sembra un segno distinto e chiaro: lo schermo è assente di quel segnale che invece è vivo e pulsante in un grappolo di persone raccolte attorno, a far della propria vita rivelazione, a vivere la scena come il mondo di fuori: è questa la grande sfida che riconosco in Garcia e nei ragazzi che ne stanno capendo l’orma e la curva dei pensieri. È presto, dunque, per il palco: per ora si sta l’uno accanto all’altro a sentirsi respirare, per il regno della solitudine, per il salto nel vuoto del palcoscenico, ci vorrà ancora tempo. È dalla comunità che si comprende la forza individuale. Conoscere il mondo e viverlo, l’uno accanto all’altro, per poterlo rappresentare.
Si comincia leggendo i testi, che diventeranno frammenti per un lavoro di soggettività estrema, organico, di animosità e fulgore intimo; Garcia ha intenzione di lavorare sui loro spunti, e che ci lavorino soli, con soltanto la sua spinta e il suo sguardo curioso ad emendare e indirizzare meglio: loro è l’idea, loro sarà la realizzazione, sia per il testo, sia per il video che molti stanno girando fuori dal teatro, negli spazi urbani che una città simile non può non offrire, sia per la suggestione sonora, di suoni preferibilmente naturali, che ne sarà compenetrazione. L’idea di Garcia, dunque, non è quella di prendere per mano fino al palco, ma di rintracciare la loro sensibilità agendo da grimaldello, da cardine di una vitalità ancora non completamente espressa e scoprire quanto pronta a farlo.
Gli attori, autori di sé, infine. Il birillo sul tetto di lamiera. Sul palco ci vanno, lanciano il loro mondo nella struttura che saprà vivificarlo. L’inerzia apparente del birillo è invece figlia di quel salto che han fatto, dalla finestra di chi sa quale piano, dal palazzo di fianco a quel tetto. Il desiderio di esserci e far girare di nuovo la ruota, mescolato alla voglia che il mondo conceda una pausa, come una di loro m’ha detto ieri sera: sono qui per capire il loro viaggio, la loro presenza, la loro incapacità a non esserci, per loro è l’ultima annotazione di questa testimonianza, perché sono loro il campo d’azione di loro stessi, passa per loro, per quel salto nello spazio vuoto da una finestra a un tetto altrui, la vitalità di quel che sapremo – lo spero – chiamare creazione.
Simone Nebbia